Taccuino Liberale #40

Martedì scorso è stata presentata al Parlamento da parte del presidente dell’Anac, Giuseppe Busia, la “Relazione annuale dell’Autorità anticorruzione”.

Uno dei dati diffusi è stata la percentuale di affidamenti diretti su tutti gli appalti pubblici assegnati, che nel 2024 è stata del 98 per cento per l’acquisizione di servizi e forniture.

 “Troppi appalti diretti, 98 per cento su servizi e forniture” ha tuonato il presidente dell’Anac, sostenendo che in Italia manca una disciplina organica delle lobby, che sarebbe più urgente oggi rispetto al passato, per via delle limitazioni della fattispecie del traffico di influenze illecite. A corollario di questo assunto ha fornito un dato ulteriore, quello relativo agli affidamenti diretti per acquisto di medicinali che è il 37,4  per cento di quel 98 per cento. Poiché la spesa sanitaria è tra le più attenzionate voci del bilancio pubblico ed è oggetto di grande dibattito e scontro politico quasi quotidiano, diminuire quel dato comporterebbe migliore o peggiore spesa pubblica? Più o meno risorse dedicate o da dedicare alla sanità pubblica? O l’Anac ci sta dicendo che quella percentuale è sintomatica di seri motivi di preoccupazione per cui una legge sulle lobby aiuterebbe ad avere una sanità migliore?

Tornando agli appalti pubblici, e a quel 98 per cento di affidamenti diretti, percentuale costante da circa 30 anni, è evidente che le stazioni appaltanti preferiscano rimanere nell’ambito di procedure di acquisizione più semplici. Non stupisce affatto, ma non per i soli motivi legati a fenomeni di corruzione. Se quel 98 per cento viene ritenuto che possa rappresentare un fenomeno quasi patologico dell’attività amministrativa pubblica, la corruzione, è bene precisarlo, non riguarda solo gli affidamenti diretti che possono svolgersi nella stanza di un responsabile unico di progetto, che ha pieni poteri nell’appalto, e che quindi vis-a-vis con l’affidatario diretto può mettere in atto comportamenti illeciti, ma può interessare tutte le tipologie di appalto, anche le gare europee.

Vi sono altre ragioni, per le quali le Pa, invece, utilizzano tanto questa procedura di acquisto, che è giusto spiegare e far conoscere, perché guardare la realtà con la sola lente anticorruzione, cercare sempre e solo la patologia, non può essere sostenibile nel lungo periodo in una democrazia liberale.

Gran parte degli acquisti non sono fatti dalle amministrazioni centrali (ministeri e simili) che hanno grande capacità di spesa e dotazioni finanziarie adeguate. Il grosso dei contratti pubblici è fatto da soggetti pubblici piccoli, che hanno budget per acquisti ridotti, tanto che tra gli addetti ai lavori si parla di “micro affidamenti”. Basterebbe curiosare sul sito di una qualunque Pa nella sezione “trasparenza”, in cui vengono pubblicati i dati sugli appalti, per capire tipologia ed entità economica degli acquisti effettuati dal sistema pubblico. Quando le dotazioni finanziarie a disposizione sono esigue, vengono fatti appalti piccoli, che consentono l’affidamento diretto ad un operatore economico; si rinuncia all’analisi comparativa di offerte di più operatori economici, che in teoria, per via della concorrenza, dovrebbero assicurare una migliore qualità al miglior prezzo possibile, ma che è molto complessa da svolgere e richiede molte competenze. Questa è una realtà che è difficilmente superabile, e che spiega, almeno in parte, perché non riusciamo a spendere i fondi europei, o quelli del Pnrr.

Le norme che regolano gli appalti pubblici sono così complesse e di non facile applicazione che non c’è di certo la corsa allo svolgimento della gara europea. Se una volta si parlava tanto di sistema di qualificazione delle imprese, quindi di Soa, Iso etc, oggi anche le stazioni appaltanti, cioè chi compra, si deve qualificare; deve dimostrare di avere le capacità professionali per fare un appalto, e la qualificazione è prevista anche per singole figure professionali essenziali per la corretta realizzazione di un contratto pubblico. Non tutte le Pa sono pronte. Inoltre, a partire dal primo gennaio di quest’anno, è stato previsto il Bim (Building Information Modeling) obbligatorio per tutti gli appalti di lavori di valore superiore al milione, ossia l’obbligo di uso esteso di tale metodologia per la gestione digitalizzata di tutte le fasi dei lavori pubblici, dalla progettazione fino alla fine della realizzazione dell’opera o del lavoro. È del tutto evidente che se (e quando) “il gioco si fa duro” non è detto che tutti siano pronti per iniziare a giocare. Per fare gare grandi ci vogliono grandi competenze e tante risorse umane e finanziarie da dedicarvi dal lato delle stazioni appaltanti, a cui deve corrispondere la presenza di operatori economici in grado di rispondere ai bandi di gara e non sempre i loro uffici gare (ammesso che li abbiano) sono pronti a gestire ogni tipo di appalto. 

Il nostro tessuto nazionale è costituito per la maggior parte da piccole e micro aziende, tanto che il legislatore nel dicembre 2024 ha corretto la normativa sugli appalti introdotta a marzo 2023 prevedendo delle norme di favore nei riguardi delle imprese più piccole e legate al territorio, per evitare che rimanessero per sempre fuori dal sistema degli appalti pubblici. 

Se da un lato l’Anac auspica un sistema concorrenziale sostanzialmente puro, il legislatore ha introdotto invece delle norme a favore delle imprese più piccole, per evitare che si scontrino in un sistema concorrenziale che non sono in grado di sostenere, anche perché è una materia vastissima ed in continua e rapida evoluzione. Nel marzo 2023, la normativa sugli appalti pubblici del 2016 è stata completamente sostituita con un nuovo Codice dei contratti pubblici, a sua volta modificato in maniera significativa nel dicembre 2024. 

A tale situazione si aggiunga che nel 2023, per essere sicuri di emanare la nuova legge entro il termine utile per poter chiedere una delle tranche di fondi del Pnrr, e quindi per velocizzare l’iter legislativo di approvazione, è stata usata una tecnica legislativa atipica, con l’utilizzo di allegati  al testo di legge, che disciplinano compiutamente quanto indicato nei singoli articoli. Quindi il testo normativo vigente in materia di appalti è poco agevole e risulta di difficile applicazione pratica. Roba da far girare la testa anche al più assiduo e fine giurista esperto della materia.

Una situazione che non ha eguali nel resto d’Europa. Gli appalti pubblici, lo ricordiamo, sono regolati da direttive che vengono aggiornate ogni 10 anni, che poi i paesi membri dell’Ue devono recepire in ambito nazionale. In Italia quindi, si assiste ad un continuo intervento normativo, che stratifica norme europee con quelle domestiche, su cui spesso interviene la giurisprudenza, o l’Anac con pareri, linee guida ed altri provvedimenti in materia di appalti pubblici, detenendo però anche poteri sanzionatori sia nei riguardi delle imprese che delle stazioni appaltanti.

Una giungla normativa ipertrofica, che meriterebbe invece una estrema riduzione.

Siamo dunque sicuri che il problema siano le lobby e che con una legge su di loro si risolvano tutti i problemi degli appalti pubblici?

Da liberale, ritengo che l’unica via da intraprendere da tempo, sia la riduzione del perimetro di azione della pubblica amministrazione e dell’incidenza delle commesse pubbliche sul Pil, attraverso il taglio della spesa, le liberalizzazioni e una profonda privatizzazione di tante attività che tolgano l’occasione alla Pa di spendere (e quindi di essere, eventualmente, protagonista di negoziazioni illecite). Anche per ridurre quel 98 per cento, deve essere ridotta la spesa, con conseguente riduzione del debito pubblico e delle tasse. Si ridurrà anche la corruzione, con buona pace dell’Autorità, ma non con una legge contro le lobby o l’ennesima incombenza formale, bensì perché lo stato ha ridotto il perimetro di spesa e quindi ogni occasione di esercizio del potere anche in ambito economico.

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Aggiornato il 23 maggio 2025 alle ore 11:01