Taccuino Liberale #50

Penultimo Taccuino prima della pausa estiva de L’Opinione, dedicato a Martina Oppelli, che nel video registrato prima di accedere al suicidio medicalmente assistito in Svizzera, ha chiesto scusa per il disturbo. Per essere malata, per ritenere non più dignitosa una vita in cui non riesce a mandare più nemmeno comandi vocali, tanto è flebile la sua voce, a causa della sua malattia, che ha da oltre 20 anni, e per aver combattuto a lungo nella speranza di ricevere quella pietas umana di cui, ideologicamente a volte, questo paese, la sua classe politica e parte del suo popolo sembra non avere, o di essersi dimenticata di avere.

Se c’è qualcuno che dovrebbe chiederle scusa, e forse lo avrebbe dovuto fare come ultimo atto prima che morisse, siamo noi, inteso come Paese, come classe politica incapace di rispondere ai grandi temi etici che emergono di volta in volta, come cittadini. Chi afferma che il fine vita non è un tema, che bisogna vivere anche nella sofferenza, evidentemente non ha mai sofferto abbastanza, non ha mai avuto abbastanza dolore fisico, non ha mai avuto una piaga da decubito o dovuto fare ricorso alla respirazione assistita e soprattutto non ha mai vissuto in totale stato di paralisi motoria. Né, per fortuna, ha mai visto in tale condizione nessun affetto, nessuna persona cara.

Il fatto che una persona debba umiliarsi e arrivare a chiedere allo Stato la libertà di poter disporre del proprio corpo, di poter decidere quando smettere di soffrire, o anche di fermarsi un minuto prima di iniziare un calvario ineludibile, come certe malattie, purtroppo promettono e mantengono, dà la misura dell’arretratezza culturale del paese, ancora legato all’idea che è lo Stato che decide per te, che sa meglio di te come stai, come devi sentirti e quindi cosa puoi fare. Le tante persone malate, che fanno richiesta di accesso al suicidio medicalmente assistito, purtroppo hanno il destino segnato e l’impossibilità di dare piena attuazione alla loro volontà di legare la loro vita alla gioia, al sorriso, alla vita degna di essere vissuta, non al dolore, all’inferno sulla terra.

Ascoltatelo il video di Martina, che chiedeva solo di poter vivere con il sorriso, e quando non le è stato più possibile sorridere, per lei è giunto il momento di prendere atto che la malattia stesse avendo il sopravvento e che una vita senza poter sorridere non è vita con piene facoltà e autonoma, e quindi indegna di essere vissuta. Invece giudici, commissioni mediche, pretendono di sapere e stabilire quando arriva il momento, senza tener conto della sensibilità individuale, senza considerare che non tutti sono religiosi a tal punto di vedere gioia nella sofferenza, probabilmente senza aver avuto la disgrazia di essere incappati in tali malattie, in tali dolori. Ha chiesto una legge che abbia un senso e che non discrimini nessun dolore, perché ogni “essere umano ha un limite di resistenza” e “ogni dolore è assoluto e va rispettato”.

In una società liberale, non ci sarebbe bisogno di una legge che ti liberi dalla malattia, che ti lasci libero di disporre del tuo corpo, dovrebbe solo prendere atto dell’esito delle scelte individuali. La libertà quale assenza di coercizione a partire da quella coercizione imposta dallo Stato, anche in materia di salute.

Chiedo scusa, Martina, se magari ti sei dovuta privare di qualche piccola gioia per risparmiare ed accumulare quelle somme necessarie per intraprendere il tuo ultimo viaggio, in Svizzera, per poter comprare la tua libertà. Che la terra ti sia lieve, ora che sei finalmente libera da una malattia devastante, di cui né nessun giudice, né nessun commissario evidentemente ha esperienza diretta, o si è trovato nella condizione di voler abbandonare un corpo per il troppo dolore fisico provato. Purtroppo, hanno dimenticato la pietas, quella che ci dovrebbe differenziare dagli altri animali, ma che in taluni casi, hanno già abbondantemente dimostrato di avere più dignità e compassione per i propri simili di noi umani.

Si faccia una legge, presto e bene, ma non per consentire alle tante persone che non hanno più una vita dignitosa e degna di essere vissuta di poter affrontare l’ultimo passo verso la libertà dalla malattia, bensì per rimuovere ogni tipo e forma di ostacolo ad agire liberamente, senza dover chiedere il permesso e doversi scusare per il disturbo. Ammalarsi non è un dovere, non deve essere lo Stato a riconoscerci il diritto di agire secondo la nostra volontà, e non può abusare del fatto che ad un certo punto si diventa non autosufficienti, per non consentirci di realizzare la nostra volontà, il rispetto della nostra dignità come esseri umani. Quindi, come si può avere bisogno di supporto per compiere gli atti di vita quotidiana, deve essere garantito che nessuno, potere pubblico in primis, metta in discussione che abbiamo la libertà di farci aiutare anche per morire. Si chiama dignità, e nessuno la dovrebbe mai calpestare, a partire dallo stato.

Riposa in pace, dolce Martina, ci hai dato una lezione di vita, di civiltà, di umanità e di libertà, altro che disturbo.

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Aggiornato il 01 agosto 2025 alle ore 12:37