
Meno male che Jasmine c’é. “Dopo Roma cerco di non mettermi ulteriore pressione, sono pronta a nuove sfide. Non si può controllare tutto in questo sport, si compete per tante settimane e non sempre ci sentiremo al meglio. L’obiettivo è dare sempre il massimo, io personalmente cerco di non mettermi troppa pressione e aspettative, e questo è un po’ da sempre”. Così ha risposto due giorni fa Jasmine Paolini, la fresca vincitrice degli Internazionali d’Italia, a chi, nella prima conferenza stampa al Roland Garros, le faceva notare il “sorriso con cui affronti le situazioni più complicate” e “questo atteggiamento spontaneo di chi vuole divertirsi” per poi chiederle, giustamente, se “manterrai sempre questo sorriso o magari arriverà più pressione”. Domanda legittima che nasce dalla sempre più evidente tossicità di uno sport che sembra aver ormai bandito l’idea stessa di divertimento.
Nei giorni che hanno preceduto l’inizio degli Internazionali di Francia sono arrivate nuove, e inquietanti, conferme sugli effetti collaterali di un tennis moderno che continua nella meticolosa e inesorabile azione di demolizione psichica (oltre che fisica) dei suoi ricchi, ricchissimi e molto fragili interpreti. Prendiamo le ultime notizie apparse sui siti specializzati negli ultimi giorni. Alla vigilia della Semifinale di Madrid (torneo che poi ha vinto), il norvegese Casper Ruud parla dei suoi “problemi a livello mentale”. Quella del tennista “è una vita dura sotto molti punti di vista, con molti giorni di viaggio, e sono arrivato a un punto in cui mi sembrava che stesse diventando troppo. Mi sentivo come se stessi correndo in una ruota per criceti che non portava mai da nessuna parte. E questa vita, questa vita da tennista professionista, è una specie di ruota del criceto che non si ferma mai”. Qualche giorno dopo il finlandese Emil Ruusuvuori, in un’intervista all’Atp, racconta dei suoi “attacchi di panico e dei problemi di salute mentale”. Accadde 3 anni fa, a Miami: “Non riuscivo a respirare, la mia mente era impazzita. Qualche giorno dopo portai (Jannik) Sinner al terzo set, ma nessuno poteva immaginare ciò che stavo vivendo. A Montreal mi ritirai con la scusa di un virus intestinale e da quel giorno non toccai più la racchetta per 4 mesi e mezzo”.
Il 22 maggio, in una lunga intervista al Guardian, l’americana Amanda Anisimova parla della sua scelta, di due anni fa, quando aveva appena 21 anni, di staccare di prendersi una pausa dall’ambiente del tennis, perché schiacciata dal peso delle aspettative e della depressione. “Mi sembrava ingiusto continuare a spingere come se non fossi un essere umano. Verso la fine del 2022 sono esplosa. Stavo lottando con lo stile di vita e con lo stress che ne derivava, e questo mi stava influenzando molto anche in campo. Avevo perso la gioia che provavo quando andavo ad allenarmi o partecipavo ai tornei. Quel meccanismo non stava più funzionando”. Un meccanismo che l’aveva portata a 17 anni alla Semifinale del Roland Garros e che in cambio le aveva chiesto l’anima. Del resto, il tennis è o non è lo sport del diavolo?
Lo sanno bene anche i nostri ragazzi: Matteo Berrettini ha ammesso di aver combattuto contro la depressione, Lorenzo Musetti ha confessato di aver sofferto di attacchi di panico durante gli incontri. Altri casi di specie riguardano Noami Osaka, che a maggio 2021 annunciava una pausa dal tennis per ragioni di salute mentale, divorata da un’ansia (da prestazione) che le impediva addirittura di “affrontare” i giornalisti in conferenza stampa. Scherzi della competizione a tutti i costi, si dirà. E tralasciamo le dichiarazioni dell’ormai incommentabile Nick Kyrgyos, che ha ammesso addirittura di pensare al suicidio nel 2019, un po’ come è successo negli anni Ottanta Yannick Noah dopo la finale vinta a Parigi nel 1982 contro Mats Wilander (“Ogni cosa era al posto giusto e se avessi vinto New York o Melbourne non sarebbe stata la stessa cosa; non mancava proprio nulla. Avevo finito i sogni: cosa avrei potuto fare di più?”, ha detto una settimana fa a Inside Tennis) o l’impazzimento metodico Benoit Paire (altro francese), che ha spiegato che la pausa Covid e il tennis senza spettatori nel 2020 lo hanno mandato letteralmente ai matti (lui che è già un po’ folle di suo).
Ma è davvero tutto così normale? Un anno fa un sito italiano di tennis ha optato per una spiegazione “multifattoriale” che si basa sui problemi di jet-lag (tanti viaggi e poco sonno), con lo sfasamento sistematico dei ritmi circadiani, e sulla dipendenza da fatica. Ipotesi condivisibile ma tendenzialmente assolutoria (o autoassolutoria) nel senso che tende un po’ troppo a minimizzare la visibile mancanza di gioia di questi ragazzi, che vengono molto ben pagati per praticare uno sport che forse hanno smesso di vivere, e possono solo subire (uno sport che, evidentemente, questi stessi siti non possono permettersi di mettere troppo in discussione per non segare l’albero su cui stanno seduti, e allora ben venga la storia del jet-lag). Altrimenti perché una come Iga Świątek dovrebbe portarsi appresso la psicologa? Forse perché non gioca per passione? Lo scorso anno, infatti, al termine della partita che la vide vittoriosa a Parigi contro Naomi Osaka, in cui rischiò di essere eliminata al primo turno, si rivolse nell’intervista di rito di fine incontro al pubblico un po’ indisciplinato, chiedendo di non rumoreggiare durante gli scambi e di rispettare le giocatrici perché “ci stiamo giocando tanti soldi”.
E poi se provi a lasciarti un po’ andare con gli amici ti arriva pure la rampogna dell’allenatore. Nella serie Netflix dedicata a Carlos Alcaraz, il suo mentore e coach, Juan Carlos Ferrero, ne ha criticato lo stile di vita fuori dal campo (è arrivata la immediata la difesa di Rafa Nadal: “Appare come un tennista che non si allena, che ama fare festa, che non è molto professionale: e questo non è vero, Carlitos è un grande professionista”). Ma se pure facesse festa che male ci sarebbe? Vietato lasciarsi andare. È cyber tennis. Si diventa criceti presto e si muore depressi. A 20 anni solo clausura. Tanti slam e poca vita. E poi magari ti ritrovi come Jennifer Capriati – già famosa, troppo famosa, a 14 anni – ricoverata a 34 anni (accadde nel 2010) per overdose, presunta accidentale, di farmaci, che qualcuno provò a spiegare come un tentato suicidio (nel 2007 raccontò la sua depressione al New York Times).
Sono già troppo lontani i tempi di Vitas Gerulaitis, di Björn Borg e di Adriano Panatta (tutto ampiamente ammesso e documentato) che chiudevano le discoteche all’alba, andavano in albergo a vomitare e poi si presentavano in campo a dare spettacolo. Amavano il tennis e la vita. E se la sono goduta (anche perché non c’era tutto il moralismo finto buonista di adesso a far loro le pulci). Questi, invece, campano psicologi e motivatori, solo per farsi aiutare ad alzarsi dal letto.
Aggiornato il 27 maggio 2025 alle ore 09:56