Pur mancando (non di molto) la maggioranza qualificata che necessita per la revisione costituzionale, le due camere hanno approvato la controversa riforma giudiziaria di ispirazione governativa. La separazione delle carriere è un tema sensibile nel dibattito politico italiano, ci si è arrivati più per estenuazione che per convinzione. È indubbio che i Costituenti avessero le loro ragioni per tenere accusa e giudicante sulla stessa barricata.
Una motivazione era squisitamente democratica: l’asservimento dei ruoli sotto l’egida del governo, durante il regime, era stata una prassi costante molto più che una norma puntuale. Su tanti temi qualificanti il Costituente scarta il fascismo andando all’opposto: in materia di corrispondenza, di provvedimenti sulla libertà personale, di religione, persino di sindacati e, ovviamente, partiti. Sugli stampati residua un regime di controlli e il riferimento a una legge sulla stampa, appunto, più fumoso che concreto.
L’altro motivo è meno sensibile, più logico e tecnico: ci sono i due codici fascisti a governare la procedura. Quei codici nascono nella valenza pubblicistica e statolatrica dell’accusa. Cambiare quel sistema vorrebbe dire aver pronto un rito accusatorio rodato, che per più aspetti né la riforma del 111 Cost. né la più recente Legge Cartabia a costituzione invariata riusciranno a sistemare. Ora si tuona al golpe e al controllo dell’Esecutivo sui pubblici ministeri. È un argomento inesatto, anche se ne capiamo la genesi.
In Italia le riforme che investono per intero categorie organizzate delle professioni e dei mestieri sollevano una resistenza di corpo endemica e notevole. In sé lecita, ma figlia del reciproco sospetto (e malsano) che intercorre tra governance e rappresentanza di categoria. Molti sistemi però la separazione tra giudicante e inquirente prevedono e riescono a garantire alle loro opinioni pubbliche un filtraggio più attento dei reati di allarme sociale (e quindi separazione non è impunità).
Non solo: la politica non è mai indifferente all’andamento della giustizia, esattamente come l’amministrazione interna della giustizia non è mai indifferente ai posizionamenti della politica. Nei sistemi teorici di Voltaire e Montesquieu ciò, entro una certa soglia di interferenza, è largamente preveduto. Abbiamo poco da meravigliarcene oggi, e semmai da dolercene. Ci sono aspetti nella cultura profonda delle istituzioni civili che non siamo riusciti a cambiare: questo è uno di quelli.
Da noi è difficilissimo fare una buona legge in materia di mediazione, perché abbiamo un’accezione della lite giudiziaria molto formalistica. E da noi lo stesso può dirsi su tutte le norme che hanno tentato almeno a parole di aprire categorie professionali e settori di mercato alla concorrenzialità.
Mi chiedo semmai perché la sinistra politica, per proteggere un’idea di Stato sociale, abbia spesso completamente rinunciato agli outsiders preferendo la strategia del diritto acquisito (ineccepibile in uno Stato la cui politica pubblica si è integralmente basata sul tax and spending).
In tema di giurisdizione, alcune delle teorie alla base del giacobinismo hanno creato un immaginario superiore alla reale conoscenza di quegli Autori. I monarcomachi francesi, sulla base di un’argomentazione giusnaturalistica, addirittura neotomistica, ritenevano legittima e a certe condizioni doverosa la rimozione fisica del tiranno. L’argomento teologico del regicidio diventava il presupposto costituzionale del diritto di resistenza. Senonché quegli Autori, destituito il re, concepivano il governo libero e liberato gestito da magistrature popolari. Un ceto di funzionari formati nella sinonimia tra il giudicare e il governare: la ratio superiore della gestione esclusiva degli interessi in conflitto.
Il punto debole è chiaro: levare di mezzo il sovrano (cosa che storicamente in Italia non s'è fatto negli anni delle rivoluzioni) non precede logicamente il dare il trono al tribuno. La regola che lo istituisce non è universale, ma faziosa quanto il risentimento antistatalista di chi, avendo in odio regole di parte, dichiara che per sé non valga regola alcuna. In questa simmetrica immaturità, il cattivo esercizio della giurisdizione fa di solito grande e anonima vittima: i diritti dei sottoposti alla “macchina” della giustizia.
(*) Professore associato di Diritto e Religione, Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Sociologia, Università degli studi “Magna Graecia” di Catanzaro
Aggiornato il 03 novembre 2025 alle ore 15:27
