Antropologia della ripugnanza

Ce l’ha fatta. Rita De Crescenzo approda in tivù. Qualche sera fa la tiktoker napoletana è stata intervistata da Francesca Fagnani in quello spazio perverso che risponde al nome di Belve. Perché, in fin dei conti, quel programma non è che un circo ottocentesco che ogni tanto espone al pubblico eccitato qualche fenomeno da baraccone. È toccato a Rita. Ha più di 2 milioni di seguaci su TikTok. È una maschera postmoderna (e post-apocalittica) che, a modo suo, rappresenta la napoletanità. Non me ne vogliano i napoletani, che magari non si riconoscono in lei o che preferirebbero farsi rappresentare da altri modelli: se lei non si collega a Napoli non funziona. Rita, almeno nei social, è l’ambasciatrice di Napoli. Non c’è città, in Italia, che più di Napoli riesce a offrire creature dalle sembianze surrealiste, e i social non fanno che amplificare questa tendenza partenopea all’eccesso. TikTok è il sadico megafono di queste voci. Sull’intervista alla De Crescenzo, come al solito, l’Italia non può che dividersi: se da una parte ci sono i difensori del grottesco, che danno a quella donna il diritto di sedere sulla poltrona di Belve, dall’altra c’è chi ritiene che su un canale di Stato non possa arrivare così tanto trash. La tivù funziona per simboli, e Rita, in qualche modo, è un soggetto fortemente evocativo.

Un’evocazione di dubbio gusto, ma pur sempre un’evocazione. Una persona come lei porta milioni di spettatori, e i numeri servono. Ma il problema non è lei. Il problema siamo noi. Il problema è il nostro sistema sociale, e poi televisivo, che si trasforma in un’arena virtuale pronta a esporre le belve agli applausi o agli scherni. I social sono incubatori di mostruosità, che noi alimentiamo e teniamo in vita. Arriva il momento del grande salto, arriva la tivù. Rita è finita nel programma da cui non ci si aspetta altro che l’esposizione finalizzata alla condanna. Le domande incalzanti, i sospiri, i ricordi del passato, la costruzione di un personaggio parallelo a quello mostrato nei video, il tutto portato avanti con un linguaggio alieno, fatto di risate e di dialetto stretto. Rita è l’eccesso così tanto eccessivo da risultare normale, quasi edulcorato, addirittura leggero. La invitano alle feste, ai battesimi, alle inaugurazioni.

Arriva in macchina, cammina scortata come un magistrato, acclamata da folle tremanti che con gli stessi decibel pregano San Gennaro. Troppo comodo dire che “non rappresenta Napoli”. Non solo la rappresenta, ma la enfatizza. E Napoli la sostiene. Il suo cabaret a domicilio funziona, e capitalizza. Siamo diventati consumatori paganti di un folklore clandestino, patetico, grottesco. I quindici minuti di fama diventano mesi, anni, e finiamo per trasformare un accidente mediatico in un emblema. Se Rita De Crescenzo va da qualche parte, il popolo la segue. Lei non è un avatar, esiste davvero, esce dallo schermo e muove le folle. Arriva a Roccaraso con migliaia di persone, e una tranquilla località – comunque turistica – diventa teatro di una rievocazione storica. Guardando le immagini dei pullman carichi di fan provo il terrore che sentivano gli egizi all’arrivo delle cavallette. Ma è tutto normale. Anzi, quello che vediamo con lei e con pochi altri, non potrà che aumentare. Chi ha repulsione per questo mercato del trash sappia che siamo soltanto all’inizio. Non basta non avere TikTok, per il semplice fatto che le creature social finiranno sempre più spesso in televisione, le vedremo in giro, probabilmente potremmo fare tardi da qualche parte perché orde di fan occuperanno strade o negozi.

Ma questo mercato lo abbiamo chiesto noi. Anzi, lo abbiamo desiderato così tanto da accettare e normalizzare ogni risultato prodotto. Ci sono anche tiktoker che fanno contenuti apprezzabili, ma quelli mediaticamente valgono meno del nulla. Rita De Crescenzo funziona perché incarna alla lettera il manuale dell’antropologia contemporanea e TikTok – da valido laboratorio della perversione – gode nel mettere quotidianamente in scena spettacoli rivoltanti per un pubblico di schiavi culturali. Napoli ha impiegato anni, decenni, per ripulirsi di quei residui fatti di pregiudizio e repulsione. Ci sono voluti artisti, cantanti e intellettuali per far risorgere una città, per seppellire una volta per tutte i richiami all’eccesso, al grottesco e al rivoltante. Poi arriva il giorno in cui Napoli torna a essere l’emblema di tutto quel mostruoso che ha richiesto autentiche lotte culturali per sbarazzarsene. Non ci sono colpevoli o vittime. Ci siamo soltanto noi, che, a quanto pare, non riusciamo a stare lontani dai richiami ancestrali, che sguazziamo nel tirare su qualche scemo del villaggio, e quando il villaggio è ormai saturo finiamo col colonizzare qualche altra terra vergine. Il suo tempo finirà, ma ci sarà già un degno sostituto.

Aggiornato il 31 ottobre 2025 alle ore 14:17