
Il governo istituisce il 4 ottobre come festa nazionale per San Francesco: un gesto simbolico, costoso e privo di senso civile.
Con la legge approvata dalla Camera dei deputati il 23 settembre 2025 e dal Senato il 1° ottobre 2025, il governo ha ufficialmente istituito il 4 ottobre come giorno festivo nazionale in onore di San Francesco d’Assisi, patrono d’Italia. Il provvedimento, promulgato dal Presidente della Repubblica l’8 ottobre, prevede la chiusura di scuole e uffici pubblici, il riconoscimento dei diritti lavorativi e la decorrenza dal 2026, in coincidenza con l’ottavo centenario della morte del Santo.
Per i fautori del provvedimento ‒ il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano e i partiti di maggioranza ‒ la nuova festività dovrebbe richiamare valori come pace, fratellanza, tutela dell’ambiente e solidarietà. Valori che, come sempre accade quando vengono tradotti in legge, rischiano di perdere ogni autenticità.
L’Italia non aveva alcun bisogno di un nuovo giorno festivo. Non lo chiedevano i cittadini, non lo reclamavano le imprese e neppure lo rivendicavano i sindacati. Tuttavia, in un Paese dove ogni giornata non lavorativa ha un costo economico rilevante, il Parlamento ha scelto di aggiungere un’altra pausa collettiva. Una decisione che rivela, più che una visione, una tendenza: quella di una politica che preferisce la gestualità simbolica alla responsabilità.
Sul piano economico, poi, la misura è difficilmente difendibile. In un sistema produttivo già fragile, ridurre le ore di lavoro significa ridurre ricchezza, produttività e competitività. Ogni festività aggiuntiva comporta costi diretti per lo Stato e per le imprese, effetti negativi sul Pil e minore efficienza complessiva. È il paradosso di un governo che, da un lato dichiara di voler “liberare le energie del Paese” e dall’altro, contestualmente, ne riduce il tempo effettivo di lavoro. L’effetto sarà duplice: un onere economico immediato e un nuovo “diritto acquisito” che nessuno oserà più toccare.
Quanto al piano simbolico, la scelta è ancora più contraddittoria. San Francesco, figura spirituale e personale, viene trasformato in un’icona politica funzionale alla retorica pubblica. La povertà per lui fu un atto di libertà individuale, non un programma sociale. Eppure, è proprio questo che lo Stato tende a fare: appropriarsi di figure morali per giustificare la propria autorità. In nome del poverello d’Assisi si esaltano la rinuncia, la sottomissione, la “sobrietà” collettiva ‒ non la responsabilità personale e la libertà di scegliere. Così la virtù diventa norma e la fede si trasforma in pedagogia di Stato.
Non serve quindi un’altra festività: serve invece meno Stato, anche nel calendario. Ogni giorno “comandato” è un giorno sottratto alla libera decisione individuale, un piccolo atto di esproprio simbolico. Le feste dovrebbero nascere dal basso, come accade negli Stati Uniti, dove le ricorrenze civiche esprimono la pluralità di una società federale e non l’uniformità di un potere centrale. L’Europa continentale, al contrario, continua a confondere l’identità collettiva con la ritualità imposta: un tratto ereditato dal Medioevo, non da un Paese moderno.
In realtà, nessuna società veramente libera fonda la propria coesione sulle festività obbligatorie. La Svizzera ne ha una sola a livello federale ‒ il 1° agosto ‒ e lascia ai Cantoni e persino ai Comuni la facoltà di stabilire altre ricorrenze. Negli Stati Uniti le feste federali sono poche e non vincolanti: le imprese private decidono autonomamente se lavorare, e molte celebrazioni nascono da iniziative civiche spontanee. A Hong Kong le aziende gestiscono liberamente i propri giorni di riposo, mentre nel Giappone della modernizzazione Meiji la riduzione delle festività è stata vista come segno di progresso, non di sacrificio. Tutti esempi che convergono in un principio semplice: il tempo non appartiene allo Stato, ma all’individuo.
A complicare il quadro, lo stesso Capo dello Stato ha segnalato una contraddizione evidente: il 4 ottobre era già solennità civile per Santa Caterina da Siena, anch’essa patrona d’Italia. Ora la data cumula due celebrazioni con regimi giuridici diversi ma significati analoghi. Mattarella ha pertanto invitato il Parlamento a correggere la legge, suggerendo di unificare le ricorrenze per evitare una sovrapposizione normativa. Ciononostante, laddove la duplicazione venisse risolta, resterebbe comunque il problema più profondo: quello di uno Stato che continua a credere di poter educare i cittadini attraverso i riti, e non di liberarli dalle sue interferenze.
Un governo autenticamente riformatore avrebbe imboccato la strada opposta: ridurre, se non abolire, le festività, non moltiplicarle, accorpandole in una sola giornata simbolica, neutra, dedicata alla cultura e al lavoro, non all’ideologia. Sarebbe stato un segno di fiducia nella società, non l’ennesimo gesto di paternalismo pubblico.
L’Italia ha bisogno di libertà, non di liturgie civili. Di efficienza, non di giornate simboliche. Di cittadini responsabili, non di sudditi riconoscenti. Il valore di una nazione non si misura dal numero delle sue feste, ma dalla libertà con cui ciascuno sceglie come e quando festeggiare la propria vita.
Aggiornato il 17 ottobre 2025 alle ore 10:40