
In un tempo di saturazione informativa e lettura superficiale, il libro di Massimo Nardi Leggere l’umano. Il senso religioso di Luigi Giussani (Bonomo editore) rappresenta una proposta culturale controcorrente di straordinaria rilevanza. Non si tratta di un saggio critico né di una sintesi, ma di un vero e proprio metodo: un invito strutturato e preciso a entrare dentro Il senso religioso di Giussani per leggerlo “sul serio”, cioè in profondità. L’opera di Nardi nasce dalla consapevolezza di una crisi culturale che riguarda tutti: in un’epoca di messaggi, notifiche e interruzioni continue, abbiamo perso la capacità di leggere come “esercizio dello sguardo” ed “esperienza trasformativa”. Attraverso domande guida, mappe concettuali, approfondimenti e riepiloghi critici, Leggere l’umano accompagna capitolo per capitolo la lettura dell’opera giussaniana, non per sostituirla ma per renderla più intensa e consapevole. La proposta pedagogica è chiara: leggere non è attività passiva, ma lavoro che coinvolge il soggetto intero e produce una nuova esperienza della realtà. Come sottolinea Francesco Botturi nella prefazione, la sorte più triste di un testo non è essere ignorato, ma essere “usato invece che letto” – utilizzato per citazioni o per rafforzare identità precostituire, perdendo così la sua funzione di far emergere la verità del reale. In questo senso, il libro di Nardi è più che un sussidio didattico: è un invito ad abitare la parola scritta con quella profondità umanistica che crede nei testi come strumenti per vivere più consapevolmente e pienamente.
Lo scorso 13 giugno, nell’Aula magna del Liceo Classico “Gabriele D’Annunzio” di Pescara, ho avuto l’onore di presentare Leggere l’umano insieme all’autore Massimo Nardi. Il dibattito che è seguito, ricco di interventi e domande, ha confermato quanto l’opera di Giussani continui a suscitare interrogativi profondi che attraversano generazioni e sensibilità diverse. A partire da quella discussione, e dalla rilettura del Senso religioso che ne è seguita, molte sono le questioni che sorgono e che meritano di essere affrontate con serietà filosofica. Non si tratta di aderire acriticamente al pensiero del sacerdote di Desio, né di respingerlo in nome di pregiudizi ideologici, ma di prenderlo sul serio nel confronto con le sfide del pensiero contemporaneo. La domanda centrale – se Dio sia ragionevole, se cioè la ragione umana possa legittimamente aprirsi al divino – tocca infatti nodi teorici che vanno ben oltre l’ambito della teologia o dell’apologetica cattolica. Coinvolge questioni epistemologiche, antropologiche e metafisiche che interpellano chiunque voglia comprendere il senso dell’esistenza umana nel nostro tempo. L’intera architettura del Senso religioso fa perno su un concetto: la “ragionevolezza”. È questa la parola-chiave che dovrebbe risolvere l’antica tensione tra fede e ragione, restituendo al credere una dignità epistemica e al pensare una capacità di apertura al mistero. Ma proprio qui si nasconde il nodo più problematico dell’intera operazione giussaniana. La ragionevolezza, infatti, porta con sé un’ambiguità costitutiva che Giussani non scioglie mai completamente. Nel senso comune, ragionevole è ciò che appare prudente, equilibrato, proporzionato alle circostanze. È la misura dell’agire sensato, la forma elementare di quella saggezza pratica che permette di navigare nella complessità del quotidiano senza eccessi pericolosi.
Se questo è il significato, allora l’affermazione che “Dio è ragionevole” nasconde un’insidia mortale per la fede stessa. Un Dio ragionevole in questo senso non sarebbe altro che la proiezione idealizzata del nostro bisogno di sicurezza, l’idolo che costruiamo per non affrontare la vertigine dell’esistenza. Sarebbe il prodotto di quella “prudenza” che San Paolo definiva “stoltezza” rispetto alla follia della croce. Ma Giussani intuisce il pericolo e sposta il tiro. Per lui, ragionevole significa “fondato”, “autoevidente”, ciò che si impone alla coscienza con la forza dell’evidenza immediata. Dio sarebbe ragionevole perché corrisponderebbe alle esigenze originarie dell’uomo, manifestandosi come verità che non ha bisogno di dimostrazioni perché si mostra da sé. Qui però si apre un abisso ancora più profondo. Se Dio è davvero autoevidente, se la sua esistenza si impone con la necessità dell’evidenza, che ne è allora della fede?
La fede, secondo la definizione paolina della Lettera agli Ebrei, è proprio “fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede” (Eb 11,1). Essa interviene esattamente là dove l’evidenza viene meno, dove il soggetto deve compiere quell’atto di fiducia che nessuna dimostrazione può sostituire. L’oscillazione semantica del termine “ragionevolezza” pone dunque una domanda ineludibile: è possibile conciliare fede e ragione rimanendo all’interno dell’orizzonte metafisico tradizionale? Giussani ha il merito di aver posto questa questione con un’urgenza e una passione educativa che attraversano le generazioni. La sua intuizione – che Dio possa essere insieme evidente e misterioso – coglie qualcosa di essenziale nell’esperienza religiosa. Ma proprio la grandezza di questa intuizione ci costringe a interrogarci: questa sintesi è davvero possibile? O forse il tentativo stesso di Giussani, nella sua stessa impossibilità, ci indica una strada diversa? Forse il limite che egli incontra non è un fallimento del suo pensiero, ma il segnale che occorre pensare altrimenti – con Giussani, oltre Giussani – la questione stessa del rapporto tra l’umano e il divino, tra l’uomo e la Verità?
(*) Leggere l'umano. Il senso religioso di Luigi Giussani, Bonomo editore, 173 pagine, 11,40 euro
Aggiornato il 05 agosto 2025 alle ore 11:51