
Un’eredità di sangue che la città non può più ignorare
È morto Raffaele Fiore, e con lui se ne va un pezzo di storia che Bari, la sua città natale, ha forse cercato troppo a lungo di dimenticare. Ma la morte non cancella il sangue, non lava le coscienze e non può seppellire la scia di violenza e dolore che il brigatista “Marcello” (questo il suo nome tra i brigatisti) si è lasciato alle spalle. Anzi, la sua scomparsa diventa un atto d’accusa contro l’amnesia collettiva, uno schiaffo a una città che ora è costretta a fare i conti con uno dei suoi figli più oscuri.
Fiore non è stato un rivoluzionario, ma un assassino. Capo della colonna torinese delle Brigate Rosse, la sua carriera criminale è un rosario di orrori che ha segnato a fuoco gli Anni di piombo. Fu lui a sparare i colpi mortali contro il vicedirettore de La Stampa, Carlo Casalegno, e fu complice nell’omicidio dell’avvocato Fulvio Croce, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Torino. Crimini efferati, commessi in nome di un’ideologia che si nutriva di odio e violenza.
E poi, l’apice del terrore: Via Fani. Il 16 marzo 1978, Fiore era lì, travestito da aviere, parte del commando che massacrò la scorta di Aldo Moro e rapì lo statista democristiano. Fu uno degli esecutori materiali di quella strage, uno degli uomini che aprì il fuoco contro altri servitori dello Stato. La sua impronta, trovata sulla portiera dell’auto usata per la fuga, è il sigillo infame sulla sua partecipazione a uno dei capitoli più bui della Repubblica italiana.
Ma ciò che rende la figura di Fiore ancora più indigesta, ancora più inaccettabile, è la sua totale assenza di pentimento. Mai una parola di dissociazione, mai un segno di rimorso per le vite spezzate, per il dolore inflitto a intere famiglie e a un’intera nazione. Fino all’ultimo, Fiore è rimasto l’irriducibile rivendicando la sua storia di lotta armata. Condannato all’ergastolo, ha beneficiato della libertà condizionale dal 1997, tornando a essere un uomo libero senza aver mai fatto i conti con il proprio passato.
E Bari? La città che gli ha dato i natali come ha convissuto con questa macchia indelebile sulla propria storia? La risposta, amara, sembra essere una sola: con il silenzio. Un silenzio assordante, una sorta di rimozione collettiva che ha preferito ignorare l’esistenza di questo figlio scomodo, quasi a voler credere che il male fosse qualcosa di estraneo, di lontano. Ma Fiore era barese. Nato e cresciuto a Bari Vecchia prima di emigrare al Nord e abbracciare il terrorismo.
Oggi, con la sua morte, questo velo di ipocrisia si squarcia. Cosa resta dei crimini di Fiore? Resta il dolore incancellabile dei parenti delle vittime, resta una ferita profonda nella storia del nostro Paese e resta una domanda scomoda per Bari: come si può costruire una memoria condivisa se si sceglie di dimenticare i capitoli più bui?
Ignorare l’eredità di Raffaele Fiore non è solo un torto alla verità storica, ma anche un’offesa alle sue vittime. Bari non può e non deve essere solo la città di San Nicola, del mare e della cultura. Deve essere anche la città che ha il coraggio di guardare in faccia i propri fantasmi, di ammettere che dal suo grembo è nato anche il terrore. È tempo che Bari si interroghi su come fare i conti con la storia del brigatista Fiore. Non per celebrarlo, ma per condannarlo senza appello. Per educare le nuove generazioni a rifiutare la violenza come strumento di lotta politica. Per affermare, con forza, che non c'è spazio per l’ambiguità di fronte al terrorismo.
La morte di un assassino non è mai una liberazione, ma un’occasione per ribadire da che parte sta la storia, quella vera, quella fatta di giustizia e di rispetto per la vita umana. E Bari, oggi più che mai, ha il dovere di scegliere da che parte stare.
Aggiornato il 31 luglio 2025 alle ore 10:43