
È una ferita ancora aperta quella della strage di via D’Amelio, sul depistaggio ordito da pezzi dello Stato e sulla instancabile ricerca di una verità che tarda ad arrivare, illuminata dalla tenacia di Fiammetta Borsellino e dal lavoro della Procura di Caltanissetta.
A oltre trent’anni dalla strage di via D’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, l’Italia è ancora costretta a fare i conti con una delle pagine più buie e inquietanti della sua storia repubblicana. Una ferita che non si rimargina, non solo per l’efferatezza del crimine mafioso, ma per la consapevolezza, sancita da sentenze definitive, che pezzi dello Stato hanno attivamente operato per depistare la ricerca della verità.
Il perno di questo inganno porta il nome di Vincenzo Scarantino, un piccolo delinquente trasformato in “pentito” a orologeria. Le sue dichiarazioni, rivelatesi un cumulo di menzogne, hanno portato alla condanna all’ergastolo di sette persone innocenti, strappate alle loro vite e gettate in un incubo giudiziario durato anni.
Una verità costruita a tavolino, come hanno sentenziato i giudici del processo “Borsellino-quater”, che hanno parlato senza mezzi termini di “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”.
Ma chi ha “vestito il pupo”? Chi ha manovrato Scarantino, imboccandolo con una narrazione falsa e funzionale a un disegno oscuro? Le sentenze parlano chiaro e puntano il dito contro i vertici investigativi dell’epoca. In primo piano la figura di Arnaldo La Barbera, allora capo della Squadra Mobile di Palermo e del gruppo d’indagine “Falcone-Borsellino”, e di altri funzionari di polizia.
Secondo le ricostruzioni processuali, furono loro a sottoporre Scarantino a pressioni psicologiche, maltrattamenti e minacce per indurlo a dichiarare il falso.
Un’azione deliberata, pervicace, che ha inquinato le indagini fin dal principio.
Le domande, a distanza di decenni, restano macigni sulla coscienza del Paese. Sono le stesse che Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato, non si stanca di porre con coraggio e lucidità disarmanti. “Perché le autorità locali e nazionali preposte alla sicurezza non misero in atto tutte le misure necessarie per proteggere mio padre, che dopo la morte di Falcone era diventato l’obiettivo numero uno di Cosa nostra?”
E ancora: “Perché via D’Amelio, la scena della strage, non fu preservata consentendo così la sottrazione dell'agenda rossa di mio padre?”.
Domande che non sono solo il grido di dolore di una figlia, ma un atto di accusa contro un sistema che ha mostrato falle, omissioni e, come emerso, colpevoli connivenze.
Il perché di questo tradimento da parte di uomini dello Stato è forse l’interrogativo più angosciante. Le sentenze ipotizzano una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato.
Si è voluto coprire qualcuno? Si è voluto indirizzare le indagini su un binario morto per proteggere mandanti esterni alla mafia? L’ipotesi che il depistaggio fosse funzionale a nascondere responsabilità indicibili è più di un sospetto. Lo stesso La Barbera, è emerso, era stato in passato un collaboratore del Sisde, il servizio segreto civile, con il nome in codice “Rutilius” o “Catullo”.
Un’anomala collaborazione tra la Procura di Caltanissetta e il Sisde nella fase iniziale delle indagini è stata definita “inquietante” dagli stessi magistrati.
Oggi, la Procura di Caltanissetta, sotto la guida di magistrati determinati, continua a scavare in questa melma, alla ricerca dei tasselli mancanti. Si indaga sui mandanti esterni, su quelle entità che potrebbero aver armato la mano di Cosa Nostra.
E si cerca ancora l’agenda rossa di Paolo Borsellino, quella che il giudice portava sempre con sé e che, secondo molti, conteneva appunti di fondamentale importanza sulle sue ultime, delicate indagini. La sua sparizione, nei concitati momenti successivi all’attentato, è uno dei simboli più potenti di questa verità negata.
La strada per una verità completa è ancora lunga e lastricata di ostacoli, come la prescrizione che ha già salvato alcuni degli imputati per il depistaggio. Ma l’impegno della magistratura e la voce instancabile di Fiammetta Borsellino e degli altri familiari delle vittime tengono accesa una luce di speranza. Una speranza che non è solo richiesta di giustizia per una strage, ma un’esigenza fondamentale per la salute democratica di un Paese che non può più tollerare di avere uno Stato contro se stesso.
Aggiornato il 22 luglio 2025 alle ore 10:19