La maturità non misura la libertà

Un sistema fondato sul valore legale del titolo di studio e sul monopolio scolastico produce conformismo, non sapere

Un ragazzo resta in silenzio all’esame orale di maturità. Una studentessa lo imita. Un altro chiede che il proprio voto venga abbassato al minimo. Non sono provocazioni o capricci adolescenziali, sono piuttosto segnali di insofferenza verso un meccanismo che valuta tutti secondo criteri imposti dall’alto, ignorando inclinazioni personali, percorsi individuali e differenze reali, e che concepisce la scuola non come bene personale, ma come estensione del potere pubblico.

Il problema non è l’esame di Stato in sé, bensì ciò che rappresenta: l’ultimo atto di una liturgia centralizzata, in cui non conta ciò che si sa, ma che lo si sappia secondo canoni prestabiliti. Un rito che non valorizza la conoscenza, ma certifica invece l’obbedienza. E che trae la sua legittimità da un principio tanto radicato quanto dannoso: il valore legale del titolo di studio.

In Italia, a differenza di molti altri Paesi, il titolo di studio non è solo l’attestazione del completamento di un percorso accademico: è un certificato giuridico, rilasciato “in nome della legge”, che produce effetti formali, scolastici e professionali. Vale per i passaggi interni ai cicli di istruzione e, soprattutto, consente l’accesso a concorsi pubblici, esami abilitativi e professioni ordinistiche. Per lungo tempo è stato persino requisito elettorale: fino al 1981, chi non possedeva un titolo doveva autocertificare il proprio alfabetismo per poter votare alle elezioni amministrative.

Questa struttura si è originata, secondo alcuni studiosi, già nel IV secolo con la Constitutio Magistros studiorum di Giuliano l’Apostata, e si è consolidata nel Medioevo con lo Studium generale, quando il potere imperiale o pontificio conferiva alle università la licentia ubique docendi. Da allora, lo Stato ha detenuto il potere esclusivo di riconoscere i saperi. Ma questo assetto, figlio di un’impostazione autoritaria e corporativa, oggi mostra tutta la sua inadeguatezza.

Lo aveva già capito Luigi Einaudi, le cui parole pronunciate nel 1947, durante i lavori dell’Assemblea Costituente risuonano più che mai attuali: “Libertà di insegnamento ed esami di Stato sono concetti incompatibili. Esame di Stato vuol dire programma, vuol dire interrogazioni prestabilite su materie obbligatorie; vuol dire certificato rilasciato… in nome di una determinata autorità pubblica, detta Stato”. E ancora, nelle Prediche inutili, aveva sottolineato: “Il valore del diploma è esclusivamente morale e non legale… nullo o scarso o sufficiente o notabilissimo, a seconda della reputazione che ogni singola istituzione si è procurata”.

Non meno chiara è stata la posizione di don Luigi Sturzo, che in un articolo pubblicato su L’Illustrazione Italiana il 12 febbraio 1950 ha scritto: “Ogni scuola, quale che sia l’ente che la mantenga, deve poter dare i suoi diplomi non in nome della Repubblica, ma in nome della propria autorità: sia la scoletta elementare di Pachino o di Tradate, sia l’università di Padova o di Bologna: il titolo vale la scuola. Se una tale scuola ha una fama riconosciuta, una tradizione rispettabile, una personalità nota nella provincia o nella nazione, o anche nell’ambito internazionale, il suo diploma sarà ricercato, se, invece, è una delle tante, il suo diploma sarà uno dei tanti”.

Entrambi, come appare evidente, rifiutavano l’idea che lo Stato potesse sancire per legge il valore della conoscenza. Per loro, come per ogni società libera, è il merito riconosciuto spontaneamente – non l’autorità pubblica – a conferire legittimità a un percorso formativo. E il mercato lo dimostra: le imprese, nei fatti, guardano al contenuto del percorso compiuto – università frequentata, docenti, competenze – non al timbro del diploma.

Ma non è solo il valore legale del titolo a generare distorsioni. A renderle strutturali è l’assetto monopolistico dell’intero sistema educativo, in cui lo Stato non si limita a certificare: istruisce, controlla, finanzia e detta le condizioni di legittimità. La scuola di Stato è l’unica ad essere sostenuta integralmente con risorse pubbliche, mentre tutte le altre, anche quando svolgono una funzione analoga, quindi pubblica allo stesso modo, o superiore per qualità, sono ammesse solo a patto di conformarsi.

Le cosiddette scuole “paritarie” non godono di vera autonomia: possono esistere solo se si piegano a programmi, organici, regolamenti e standard stabiliti dall’amministrazione centrale. La loro libertà è condizionata, la loro esistenza autorizzata. Non sono alternative, rappresentano in verità mere derivazioni vigilate. Il principio di “parità” è stato svuotato: non assicura pluralismo, ma impone uniformità.

Nel perimetro così definito, la libertà scolastica non è un diritto effettivo, è una tolleranza revocabile. Non è la qualità a determinare il valore di una scuola, lo è la sua conformità a un modello imposto. E proprio come accade con i titoli di studio, anche qui è lo Stato a decidere chi è legittimato a educare, secondo criteri politici e burocratici.

La conseguenza è un sistema che non tollera deviazioni. Chi propone un metodo diverso, un programma innovativo, un’impostazione realmente autonoma, viene escluso dai circuiti di riconoscimento, penalizzato nei finanziamenti, ostacolato nella reputazione. Il monopolio non è dichiarato, ma di fatto è totale.

Il ministro dell’Istruzione ha di recente sostenuto che “la vita è competizione”. Ebbene, è appena il caso di rilevare che non esiste né può esistere competizione dove uno solo detta le regole, distribuisce i fondi, accredita i titoli e impone i contenuti. La competizione, quella vera e non illusoria, presuppone pluralismo; il pluralismo esige libertà. E oggi, nella scuola italiana, di libertà ne è rimasta ben poca.

In un sistema veramente aperto, sono le scuole a dimostrarsi valide sul campo, non lo Stato a stabilirne il valore per decreto. Ciascun istituto dovrebbe poter certificare ciò che insegna; le famiglie dovrebbero poter scegliere in base alla qualità dell’offerta; gli studenti dovrebbero poter contare su un sistema che li valuta per ciò che sono, non per quanto si adattano.

In siffatto contesto, è di palmare evidenza che fino a quando il valore legale del titolo continuerà a stabilire chi può accedere, insegnare, lavorare, e finché la scuola pubblica resterà il modello obbligatorio da imitare, ogni spazio di libertà sarà illusorio. Non è solo una questione di fondi, ma di potere. L’uniformità non è un effetto collaterale: è lo strumento attraverso cui si conserva il controllo. E in un sistema che premia l’adesione e punisce la differenza, la fedeltà diventa virtù, la libertà un sospetto.

Si invoca spesso l’“equità” per difendere questo sistema. Senonché, non c’è giustizia nel rendere obbligatorio per tutti un unico percorso, identico esame, medesimo diploma. La vera equità nasce dalla possibilità di scegliere, dalla libertà di distinguersi, dalla pluralità dei percorsi. E la maturità – quella autentica – non si misura in centesimi, ma nella capacità di pensare con la propria testa, di dissentire, di proporre alternative.

Tacere all’orale o chiedere un voto minimo non è un segno di fuga. È un gesto di libertà consapevole, un rifiuto simbolico di un modello che non premia la conoscenza, ma l’adattamento. Nessuna riforma sarà credibile finché non si spezzerà il legame perverso tra Stato, scuola e valore legale. Una scuola che educa davvero deve essere libera. E per essere libera, deve poter essere diversa.

Aggiornato il 21 luglio 2025 alle ore 11:51