Mantovano e il discernimento sulla giustizia

Piddini, rossi, verdi e pentastellati sono pronti a pilotare retoriche nonché reazionarie guerre contro la netta, equilibrata, tanto attesa riforma della magistratura ordinaria.

Dal pressappochismo delle barricate preconfezionate a sinistra, i cittadini potranno salvarsi, focalizzando capacità riformatrici di discernimento, di cui il governo Meloni si dimostra dotato: pur davanti alle ostilità mediatiche dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm). Antichi pregiudizi purtroppo avvelenano i programmi militanti di una parte delle correnti giudiziarie, e non consentono serene valutazioni d’impatto normativo sulla legge costituzionale che è stata approvata dal Parlamento.

A coloro che politicamente vogliono mantenere il disordine imperante nel carrierismo di bandiera della magistratura italiana, senza dubbio, si consiglia un bagno di onestà intellettuale tra le onde anomale della storia e del presente giudiziari.

La riforma approvata prospetta alla giustizia italiana una realistica opportunità di garantire meglio i cittadini indagati e imputati: rendendo meno politicizzabili i vertici della magistratura; separando le carriere dei pubblici ministeri da quelle dei giudici; sorteggiando i membri dei Csm che non siano membri di diritto; istituendo una medesima Alta Corte disciplinare per accertare con omogeneità trattamentale se e quando i magistrati sbagliano, sul piano della loro peculiare disciplina deontologico-istituzionale.

Le sinistre, invece, prospettano un irrealistico dogma – digiuno di libertà e giustizia giusta – secondo cui la magistratura andrebbe bene così com’è.

Gli italiani non sono ingenui, e sanno che la riforma approvata non apporta uno sconvolgimento per la cui realizzazione costruttiva si dovrebbe passare da fasi decostruttive o faticose: nulla di tutto ciò. La riforma sulla separazione delle carriere, ideata dai conservatori della destra popolarliberale al governo, non coincide con il programma voluto dal Partito Radicale Transnazionale. Quest’ultimo, costituendo il Comitato Pannella-Sciascia-Tortora per il sì alla separazione delle carriere, vorrebbe anche l’abolizione della obbligatorietà dell’azione penale e la sottoposizione del pubblico ministero al controllo democratico. Ma la riforma approvata non realizza questi punti ulteriori, essendo una riforma equilibrata che pone al centro del sistema giudiziario la garanzia degli italiani in carne, ossa e spirito, al netto di ogni tendenza più o meno radicale in materia di giustizia. Inoltre, restano totalmente – e condivisibilmente – fuori da tale riforma quelle punte di lato impunitivismo (irresponsabilmente libertario) delle frange più aguzze dei radicali. Per il governo Meloni, infatti, la questione della giustizia giusta non è una questione di posa o di bandiera, ma una questione seria, concreta.

La migliore rassicurazione per gli italiani che legittimamente ascolteranno tutte le voci della dialettica democratica, durante la stagione referendaria confermativa che si prospetta nei prossimi mesi, risiede nella lucidità delle dichiarazioni rilasciate dal Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri Alfredo Mantovano.

A coloro che nei prossimi mesi diranno che il governo vuole avocare di fatto i poteri dei Pm per assumere su di sé pieni poteri, a coloro che nei prossimi giorni faranno propaganda di salvataggio dei privilegi para-politici per la piccola ma rumorosa magistratura militante di corrente, i cittadini di sano discernimento e onesta volontà potranno rispondere come ha fatto Mantovano. Questi ha osservato che i “pieni poteri” non sono quelli che vuole il governo, ma sono quelli “di chi per via giudiziaria blocca la politica sull’immigrazione impedendo le espulsioni perché nessuno Stato di quelli di provenienza è sicuro”. E potranno pure ricordare che: “I pieni poteri – come ha continuato il Sottosegretario in recenti dichiarazioni – sono di chi blocca la politica industriale fermando per esempio gli impianti dell’ex Ilva con un sequestro di cui non si sa niente da mesi, pieni poteri sono di chi a fronte di 262 persone denunciate per i disordini di qualche settimana fa nel centro di Roma non dà nessun seguito di indagine e rilascia in libertà gli unici due arrestati”.

A chi chioserà che la riforma appare contraddittoria nella misura in cui si separano carriere per poi riunirle in una stessa Alta Corte con giurisdizione disciplinare sia sui giudici che sui Pm, come già il 31 agosto 2024 nella kermesse La Piazza di Ceglie Messapica in Puglia provò a fare Giuseppe Santalucia (allora Presidente dell’Anm), occorre far notare una cosa semplice. Per rispondere in Mantovano’s style, in modo rassicurante, si potrebbe controbattere sostenendo che: “L’Alta Corte disciplinare avrà una ricaduta di efficienza poiché finora l’appartenenza correntizia è stata una sorta di assicurazione per il magistrato non ligio al dovere, questa cosiddetta assicurazione scomparirà”. Ciò ha infatti detto alcuni giorni fa il Sottosegretario, aggiungendo che: “I paventati rischi per la democrazia non sono nella riforma ma nel fatto che troppe scelte politiche arrivano attraverso provvedimenti giudiziari”.

In effetti, chiunque dovesse esser munito di un minino di onestà intellettuale di fronte alla realtà non tarderebbe a riconoscere quanto la lezione di Montesquieu sulla separazione dei poteri dello Stato sia stata piegata da alcune correnti togate.

Come già ho scritto nell’estate del 2024 e in tante altre occasioni, precedenti e successive, agli intellettuali di bandiera che si dichiarano contrari alla riforma dobbiamo spiegare qual è la ratio dell’unicità giurisdizionale di una Corte alta ad hoc, ideata per i procedimenti di natura disciplinare a carico dei giudici e dei Pm. Sul piano della ragionevolezza e della parità di trattamento, è stato ritenuto opportuno far “tornare uniti” giudici e Pm soltanto nelle ipotesi eventualmente patologiche dei percorsi giudiziari dove, ordinariamente, sarebbero separati. Mentre nel fisiologico esercizio dei poteri giudiziari preme infatti garantire coloro che sono sottoposti a tali poteri (indagati, imputati e tutti) tenendo ben separate le carriere, nell’accertamento di patologie giudiziarie di carattere disciplinare è opportuno assicurare a tutti i magistrati una parità trattamentale, che solo una medesimezza istituzionale – con una stessa Alta Corte – può fornire. Nella gestione delle nomine o degli avanzamenti di carriera, invece, i soggetti istituzionali devono necessariamente rimanere distinti e diversi, sempre separati.

A prescindere da questi discernimenti, quella parte dell’ordine giudiziario che vive organizzata meta-sindacalisticamente in manifesta sintonia con le sinistre non è contraria soltanto alla medesimezza dell’Alta Corte disciplinare, bensì al concetto stesso di separabilità delle carriere nella magistratura ordinaria d’Italia. E questo è un sintomo di stantia autoreferenzialità.

Sulle sorti del governo all’indomani del referendum a cui trasversalmente si sta ricorrendo, per rimettere al popolo italiano la decisione finale sulla questione della separazione delle carriere, Mantovano giustamente ricorda che “il governo ha sempre dichiarato di non legare le proprie sorti” al referendum, “in primo luogo per rispetto istituzionale verso un Parlamento che ha espresso quattro volte il suo favore”. Soltanto una visione semplicistica o maliziosa potrebbe legare le sorti del governo a questo referendum sulla separazione delle carriere magistratuali. Ove si legassero le sorti di un governo ad un referendum confermativo senza quorum, si assisterebbe ad una lesione dei pesi e contrappesi nel rapporto tra potere esecutivo e potere legislativo. Il potere legislativo in democrazia rappresentativa è esercitato dalle due camere del Parlamento che rappresentano il popolo e la Nazione, e si spera di veder presto sorgere l’era italiana in cui il premierato patrio porterà all’attenzione dei cittadini medesimi l’elezione del Presidente del Consiglio dei ministri, capo del governo: su tale fronte di democrazia chissà cosa avranno da chiosare i paladini del referendum.

Mi si consenta un auspicio. L’Anm non diventi la piccola Flotilla dell’antiriformismo, e nemmeno l’anticamera del khomeinismo giudiziario. Non è possibile lasciar passare come normali (voglio usare questa parolaccia) alcune snaturanti ideastre di disobbedienza giudiziaria antitetiche all’ordine costituzionale, come pure si sta ascoltando da chi aizza ad atti di disobbedienza i magistrati: con tali atteggiamenti si andrebbe a finire in derive massimaliste di stampo wokistico-giudiziario, con una conseguente cancellazione delle radici culturali legalitarie, su cui la magistratura d’ogni tempo deve fondarsi.

Ma mi si consenta anche un invito generale in coscienza, riconciliante ironia ed eleganza. Si faccia un po’ come con la scommessa ideata dal filosofo, teologo, fisico, matematico seicentesco Blaise Pascal, a cui invero non mi sono mai troppo ispirato. Voi scommettete, se Dio esiste ben venga, avrete vinto la scommessa al termine della vita, altrimenti se Dio non esiste avrete comunque vissuto – e lasciato vivere – meglio le persone. Parimenti, se il rischio di commistione tra le funzioni giudicante e inquirente-requirente ai tempi dell’unicità delle carriere dei magistrati ordinari esiste, scommettiamo bene se scommettiamo sulla separazione delle carriere, in buona fede d’intenti. Se il rischio per le garanzie di terzietà dei procedimenti e dei processi dovesse non-esistere, avremmo comunque dato più sicurezza ai cittadini in un settore troppo delicato qual è quello della giustizia, da esercitare in nome del popolo italiano nelle vite concrete degli individui, presunti innocenti fino all’ultimo grado di giudizio e fino a prova contraria.

In tema di garanzie vive dello Stato di diritto liberale, è meglio una garanzia in più che una in meno, soprattutto se da quella garanzia dipende la libertà e la vita, anche solo di un essere umano sulla faccia dell’Italia, e della Terra. Per di più, dopo aver studiato per anni le radici plurisecolari del principio di naturalità giurisdizionale in ambito accademico ed extra-accademico, posso sostenere con cognizione di causa che per rendere il giudice davvero “naturale” occorre non solo la precostituzione per legge, come si evince dalla Costituzione repubblicana d’Italia, ma anche una sua netta separazione da chi invece si occupa di funzioni inquirenti-requirenti. Il giudice sarà davvero naturale quando sarà precostituito da una legge che lo separi carrieristicamente dai Pm, superando il modello di Csm monolitico e mescolante, che abbiamo visto operare per troppi decenni.

Separiamo le carriere, in buona fede comune, per il bene di tutti e di ciascuno: ordiniamo il disordine.

Aggiornato il 06 novembre 2025 alle ore 10:15