Libertà di stampa, diffamazione, risarcimento

Con la lezione di Mark Twain

Da quando il vice presidente degli Stati Uniti è venuto in Europa ad ammannirci una presuntuosa lezioncina sulla libertà di parola, il loro decantato free speech, gli europei tutti e noi italiani in particolare siamo sotto accusa, come se avessimo da imparare dagli americani che invece certe libertà le hanno apprese proprio da noi. L’attentato al giornalista Sigfrido Ranucci, da esecrare, ha rinverdito il dibattito non tanto e non solo sulla libertà d’informazione, ma anche sulla libertà dei giornalisti, senza la quale l’informazione diventa propaganda di Stato, come nelle dittature. Quando a Montanelli prospettavano la necessità di supportare il giornalista in funzione della libertà di stampa, lui rispondeva più o meno che la libertà del giornalista consisteva nel suo coraggio di scrivere. E tuttavia, per quanto io abbia amato il grande Indro, principe del giornalismo non solo nazionale, egli eccedeva per amor di tesi. Non si può infatti pretendere l’eroismo da ogni giornalista. Don Abbondio è nascosto pure tra gli “operatori della carta stampata”. Il punto cruciale della questione sta nella disciplina giuridica della libertà di parola che le Costituzioni riconoscono anche con formulazioni che la farebbero sembrare assoluta, ma non è. La Costituzione italiana afferma solennemente che tutti hanno diritto di manifestare liberamente il pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Ma poi stabilisce i limiti per la stampa e per il buon costume. Limiti che fanno ridere a petto di quello che si vede dappertutto sulla stampa e sul web. La legge, poi, punisce la diffamazione. La Costituzione degli Stati Uniti, Primo Emendamento, l’architrave della libertà americana, contiene addirittura un’ingiunzione al Congresso (il parlamento federale) “a non fare alcuna legge per limitare la libertà di parola o di stampa”.

Sennonché la “common law” statunitense accolse la dottrina di William Blackstone (un inglese!) secondo cui “la libertà di stampa consiste nel non porre restrizioni preventive (corsivo del testo, ndr) sulle pubblicazioni, e non nella libertà dalla censura allorché notizie incriminabili siano state pubblicate. Ogni uomo libero ha, senza dubbio, il diritto di portare a conoscenza del pubblico qualsiasi sentire egli voglia; vietare ciò è distruggere la libertà di stampa; ma se egli pubblica ciò che è scorretto, doloso ed illegale, egli deve sopportare le conseguenze della sua temerità” (Edward S. Corwin, 1958, 239 e passim). Ma la dottrina Blackstone fu rettificata nel 1804 da Alexander Hamilton con la formula: “La libertà di stampa consiste nel diritto di pubblicare la verità, anche se costituisca censura al governo, alla magistratura o ad individui, e di non essere puniti purché i motivi di tale agire siano onesti e i fini giustificati”. Tale formula costituisce tuttora il principale criterio di giudizio, con una fondamentale eccezione introdotta dalla common law in risposta alla “vigorosa rudezza del dibattito politico prima della Guerra di secessione”. Si tratta del cosiddetto “privilegio qualificato”, che consiste nell’avvisare gli attori di un processo per calunnia che “se essi sono così sfortunati di ricoprire cariche pubbliche o di aspirare a ricoprirle, debbono essere pronti ad addossarsi il quasi impossibile compito di provare che il convenuto ha agito con dolo particolare”.

Questo dolo particolare è detto “special malice”. Mentre nel Regno Unito, in mancanza di una Costituzione scritta, una causa per diffamazione è ammessa ma il diffamato deve provare una lesione effettiva, negli Stati Uniti la giurisprudenza è nelle mani della Corte Suprema che pone diversi ostacoli alla libertà di parola per come sembrerebbe tutelata dal mitico Primo Emendamento. In Italia non possiamo lamentarci, in astratto, della libertà di parola, che non è compressa in diritto bensì in fatto. Nel suo concreto esercizio tale libertà è pesantemente condizionata in modo obliquo, intimorendo il giornalista con cause pretestuose (le liti temerarie) ed esponendolo al pericolo di sanzioni economiche e gravi ritorsioni di vario genere. Nella più completa incertezza di qualificazione giuridica del fatto, questi condizionamenti, tanto più vergognosi quanto più tentati o compiuti da uomini politici di ogni livello (in senso proprio e in senso figurato), che dovrebbero viepiù tollerare e incassare le offese della stampa in virtù del “privilegio qualificato”, devono essere eliminati. La legge deve provvedervi, ponendo limiti anche all’ammontare dei risarcimenti, oggi rimessi all’uzzolo di un giudice che talvolta giudica sul ricorso di un altro giudice.

Sono convinto che l’adozione, costituzionale o legislativa della “dottrina Hamilton”, specificatamente per chiunque ricopra una carica pubblica di qualsivoglia genere, contribuirebbe a incoraggiare i giornalisti e a proteggerli da velenose chiamate in giudizio, ridando più compiuta libertà alla libertà di parola, in modo da poter conservare sistematicamente quella “vigorosa rudezza del dibattito politico” che appare indispensabile alla vitalità di una democrazia davvero liberale. E perciò sento di dover ricordare ai legislatori, ai governanti, ai giornalisti le potenti parole del più grande scrittore americano. “Nel cuore di ogni uomo si cela almeno un’opinione impopolare sulla politica o sulla religione, e in molti casi se ne trova ben più di una. Più l’uomo è intelligente, maggiore è la quantità delle opinioni di questo tipo che ha e che tiene per sé. Non c’è individuo – compreso il lettore e me stesso – che non nutra convinzioni impopolari, che coltiva e accarezza, ma che il buon senso gli vieta di esprimere. A volte sopprimiamo un’opinione per ragioni che ci fanno onore, non onta, ma più spesso lo facciamo perché non possiamo sostenere l’amaro costo di dichiararla. Nessuno vuol essere odiato e a nessuno piace essere evitato. Il risultato naturale di questa condizione è che, consciamente o inconsciamente, prestiamo più attenzione ad accordare le nostre opinioni con quelle del nostro vicino e a mantenere la sua approvazione, piuttosto che a esaminarle con scrupolo per vedere se siano giuste e fondate. Questa abitudine conduce necessariamente a un altro risultato: l’opinione pubblica che nasce e si alimenta in questo modo non è affatto un’opinione, è semplicemente un’abitudine; non suscita riflessioni, è priva di princìpi e non merita rispetto” (Mark Twain, Libertà di stampa, 2010, 8).

Aggiornato il 24 ottobre 2025 alle ore 10:11