Le democrazie non hanno il dono dell’eternità

È convinzione diffusa nel mondo occidentale che il sistema democratico liberale possa essere considerato, per la sua potenza intrinseca, del tutto impermeabile agli insulti della storia. Dopo la caduta del Muro di Berlino e la sconfitta del comunismo, un attento studioso quale Francis Fukuyama ipotizzò che si fosse giunti alla “fine della storia” e che negli anni a venire avremmo assistito a un diffuso trionfo della democrazia rappresentativa. Il corso degli eventi, come sappiamo, ha smentito le previsioni del professore di Harvard. Infatti, quel che è accaduto nei decenni successivi, dalla crisi dei meccanismi della rappresentanza politica alla crescente affermazione dei populismi insieme all’aumento del disincanto elettorale, ha evidenziato la fragilità e la vulnerabilità più che la forza delle istituzioni democratiche. Di qui, la domanda che ci s’incomincia a porre: la democrazia, al pari di altre costruzioni umane, è destinata nel tempo a perire? A tal proposito, due autorevoli politologi, Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, in Come muoiono le democrazie, non escludendo che ciò di cui stiamo parlando possa accadere, invitano a considerare che “le democrazie moderne potrebbero essere sconfitte senza ricorrere ai tradizionali interventi militari, ma solo per mezzo di un lento decadimento interno segnato dall’abbandono progressivo delle regole dello Stato di diritto”.

Che i due analisti abbiano visto giusto, lo si evince osservando quanto sta accadendo in alcuni Paesi, come l’Ungheria e la Turchia, dove i rispettivi leader, Victor Orbàn e Recep Tayyip Erdoğan, dopo avere assunto il potere legittimamente per via elettorale, si sono subito adoperati sia per ridurre le libertà (dall’autonomia della stampa all’indipendenza della magistratura) che per introdurre pericolose modifiche costituzionali palesemente illiberali. Lo stato di salute complessivo delle democrazie risulta precario anche a causa di una pubblica opinione sempre più disincantata. Yascha Mounk ricorda, in Popolo vs democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale, che il livello di sfiducia nei confronti delle istituzioni da parte dei cittadini ha raggiunto un punto critico e che tutti gli studi demoscopici fin qui condotti rivelano che un alto numero di elettori afferma di essere disposto a rinunciare alle libertà fondamentali, pur di ottenere, in cambio, dalla classe politica risultati concreti. Se non siamo a un passo dal desiderio d’individuare “l’uomo forte al comando” poco manca. Non vi è dubbio alcuno sul fatto che il populismo sia stato in questi ultimi anni il principale vettore attraverso cui si è realizzata una lenta ma costante delegittimazione delle democrazie liberali considerate “luoghi in cui si fanno gli interessi delle élite e non delle masse”. In tal senso, la vittoria di Donald Trump può considerarsi un caso di scuola. Sappiamo che non esiste alcuna garanzia circa l’eternità delle istituzioni liberaldemocratiche, ma ciò di cui oggi occorre avere contezza è che, come scrive lo storico Timothy D. Snyder nel saggio Sulla libertà, “il declino è spesso preceduto dall’indifferenza e dalla rassegnazione dei cittadini, oltreché dal cinismo di chi è pronto ad approfittarne per impossessarsi del potere”. Cogliere appieno tali segni è fondamentale, per evitare il peggio. La democrazia potrebbe essere sconfitta come, peraltro, è già accaduto in altri momenti storici e nel pieno dell’Europa. Riflettendo sulla Germania nazista, Hannah Arendt scrisse che “la libertà non è mai data una volta per tutte, ma deve essere continuamente riconquistata”. Una lezione che oggi rischiamo di dimenticare.

Aggiornato il 15 settembre 2025 alle ore 11:06