
Dietro la retorica dell’emergenza abitativa, il vero problema è la libertà di costruire e di contrattare
La cosiddetta “fame di case”, denunciata recentemente da Panorama, è una diagnosi corretta con una terapia sbagliata. Il problema è reale: prezzi in crescita, offerta insufficiente, città sempre più inaccessibili per fasce crescenti di popolazione. Senonché attribuire questa situazione al “mercato”, alla “speculazione” o alla “finanziarizzazione dell’abitare” significa capovolgere la realtà. Non c’è troppo mercato, ma troppo poco. E soprattutto, troppa regolazione. Si continua a ripetere che l’abitazione è un diritto e che trasformarla in “asset” è una degenerazione. In realtà la casa è da sempre e innegabilmente un bene economico, oltre che affettivo: è costruita con capitale, venduta o affittata a prezzo, soggetta a imposte e a valutazioni di mercato. Non riconoscere questo dato significa negare la natura stessa dell’abitare in società avanzate. Quando l’immobile viene percepito solo come valore d’uso e non anche come valore di scambio, ogni investimento immobiliare diventa sospetto, ogni proprietario un potenziale speculatore. E da qui parte la spirale dell’intervento pubblico.
Nel testo dell’articolo della citata rivista si denuncia con allarme che, tra il 2010 e il 2025, i prezzi delle case nell’Unione europea sono aumentati del 57,9 per cento e gli affitti del 27,8 per cento. Ci si guarda bene tuttavia dal domandarsi perché. Se un bene diventa più caro è perché è più richiesto o meno offerto. E in questo caso, l’offerta è stata compressa artificialmente. Infatti, in nome del paesaggio, dell’ambiente, del consumo di suolo, dei vincoli storici, le amministrazioni locali e centrali hanno reso quasi impossibile costruire nuovi alloggi. E se il terreno edificabile è scarso, è inevitabile che le poche case disponibili aumentino di valore. La scarsità non è colpa del mercato: è figlia del divieto. È paradossale poi che si denunci la presenza di milioni di alloggi vuoti come fosse un segnale di inefficienza privata. Oggi, è dato però rilevare, chi affitta un appartamento lo fa a rischio e pericolo. Il locatore deve affrontare una pressione fiscale altissima, norme sempre mutevoli, morosità cronica e una giustizia civile che non garantisce tempi certi né rimborsi. Se il sistema non tutela la proprietà, non deve poi stupire se le case restano chiuse: non è egoismo, è razionalità.
Si propone inoltre di inserire il diritto alla casa in Costituzione. Ebbene, scrivere un diritto non lo rende esigibile. L’Italia è già tra i Paesi con più “diritti sociali” sulla carta, e con meno efficienza nella loro realizzazione. Anzi, quanto più lo Stato pretende di garantire diritti “inviolabili” – come casa, salute, lavoro – tanto più deve agire in modo invasivo: tassare, pianificare, redistribuire. È una strada che porta al fallimento, perché presuppone risorse infinite e conoscenze centralizzate che nessun governo possiede. Emblematica in tal senso è l’esaltazione del “modello Vienna”, dove metà della popolazione vive in case pubbliche o sovvenzionate. A ben vedere, detto modello è fondato su una pressione fiscale elevatissima, sulla marginalizzazione dell’iniziativa privata e su un’economia immobiliare totalmente dipendente dalle scelte municipali. La pianificazione austriaca funziona finché i contribuenti sono disposti a pagare il conto. Ma si tratta di un esperimento difficilmente replicabile in altri contesti, meno omogenei e con finanze pubbliche più fragili.
Al contrario, se si vuole favorire davvero l’accesso alla casa, occorre restituire al settore edilizio le condizioni per funzionare liberamente. Serve una liberalizzazione profonda dei vincoli urbanistici, una semplificazione radicale delle normative edilizie, la rimozione degli ostacoli burocratici che bloccano i cambi di destinazione d’uso e le ristrutturazioni. Occorre garantire certezza del diritto per chi investe e affitta, assicurare tempi rapidi per gli sfratti e ridurre la pressione fiscale sugli immobili, oggi tra le più alte d’Europa. E soprattutto bisogna smettere di criminalizzare il profitto immobiliare, che è l’unico motore in grado di far crescere l’offerta in modo sostenibile e diffuso. La casa deve tornare a essere un bene liberamente commerciabile, non un diritto da garantire attraverso l’espansione dell’intervento pubblico. È la proprietà privata, non il social housing, ad aver permesso nei decenni passati la diffusione dell’abitazione tra i ceti medi e popolari. Ed è stato lo Stato, con le sue rigidità, a bloccare l’ascensore sociale.
L’alternativa non è, come scrive l’articolo, tra “modello di mercato” e “modello di vita dignitosa”. È proprio il mercato – cioè, l’incontro libero tra domanda e offerta – a garantire dignità e possibilità a tutti, anche a chi ha meno. Il vero privilegio è vivere in un sistema dove costruire una casa non è un’impresa impossibile, affittare non è un atto di fede e acquistare non è un sogno di carta bollata. Il resto, è retorica. E anche pericolosa: perché legittima l’idea che lo Stato possa disporre di ciò che non ha costruito, regolamentare ciò che non possiede, imporre prezzi, usi e finalità secondo logiche estranee al rispetto dei diritti individuali. Quando la casa smette di essere un investimento legittimo per diventare un oggetto di politica redistributiva, nessuno vince. E i primi a perdere sono proprio quelli che si vorrebbe aiutare.
In definitiva, la fame di case non si placa con nuovi piani statali, ma con più libertà. È questa la sfida che andrebbe finalmente accettata, se si vuole davvero uscire da un’emergenza che, più che abitativa, è culturale.
Aggiornato il 06 agosto 2025 alle ore 10:21