
A giudicare dalla sempre più scarsa partecipazione al voto, non v’è dubbio che la democrazia liberale si trovi in uno stato di sofferenza non irrilevante. Infatti, non vi è competizione elettorale che non si concluda alla pari fra il numero dei votanti e quello degli astensionisti. Si tratta di un fenomeno presente in quasi tutti i Paesi occidentali là dove si sta consumando una vera e propria rivoluzione sul terreno della partecipazione politica. Da un lato, l’elettore è sempre meno interessato alla selezione delle leadership per mezzo del voto, dall’altro, la classe politica, non curante degli effetti negativi sulla tenuta del sistema democratico nel lungo termine, dimostra di puntare solo al rigido controllo dei meccanismi elettorali, per affermarsi sempre più come oligarchia. Eppure, l’ammonimento che le democrazie siano entità fragili e che necessitano per funzionare di un continuo rapporto di fiducia, per mezzo delle istituzioni rappresentative, fra governanti e governati risale al lontano 1649, quando gli autori del Mayday Agreement, anticipando i princìpi cardine alla base delle rivoluzioni del Diciassettesimo e Diciottesimo secolo, misero tutti sul chi vive circa la pericolosità di un “potere legittimo minato da una diffusa riserva di sfiducia”. La domanda da porsi è: quali sono le ragioni che sostengono tali trasformazioni? Il filosofo americano Michael Walzer non ha dubbi e indica nella “società dell’esclusione” il motivo principale.
“Gli individui si fidano meno gli uni degli altri – scrive – sia a causa della crescente incertezza economico-sociale legata ai fenomeni del mondo globale sia a motivo dello sgretolamento dei vecchi luoghi di socializzazione, in particolar modo i partiti politici quali entità indispensabili per orientarsi razionalmente in una realtà in continuo mutamento. Dalla mancanza di fiducia reciproca fra le singole persone alla rottura fra élite e popolo il passo è breve”. Alle dinamiche di lungo periodo che accomunano tutti i sistemi democratici, vi sono, nel caso dell’Italia, da prendere in considerazione alcune peculiarità aggiuntive. Infatti, la disaffezione elettorale nel nostro Paese è da mettere in relazione anche al fatto che il cittadino elettore diserta le urne soprattutto perché sa che con il proprio voto conta poco, se non addirittura nulla. Del resto, con il regime elettorale vigente la libertà di scelta dei rappresentanti in Parlamento è ridotta ai minimi termini. Giusto il contrario rispetto a quanto richiede una democrazia liberale funzionante. Una modalità che consente alle segreterie di partito di decidere, in luogo dell’elettore, chi promuovere e chi bocciare. “La democrazia della sfiducia”, per dirla con Pierre Rosanvallon, si può contrastare portando in capo al cittadino-sovrano il potere di scegliere direttamente sia il nome del capo del Governo che i propri rappresentanti da inviare alla Camera e al Senato. Si riuscirà a farlo? La posta in gioco è molto alta e riguarda la possibilità di riaprire nuovi canali di fiducia fra la classe politica e i cittadini. In gioco, vi è il futuro della democrazia liberale.
Aggiornato il 04 agosto 2025 alle ore 10:43