Debunking della propaganda contro la separazione delle carriere

Chiunque sia un minimo avvezzo al dibattito pubblico è a conoscenza del livello di mistificazione, semplificazione e strumentalizzazione che le forze politiche attuano per la propria causa. A memoria, poche volte, però, si è toccato un livello tale di spregiudicatezza come per ciò che si sente dire sulla separazione delle carriere. Quello della separazione delle carriere è un principio liberale di lunghissima data, di pannelliana memoria. Non è una riforma identitaria di Giorgia Meloni, né del tipo di destra che rappresenta la Meloni – che difatti è piuttosto tiepida nel supportarla, vedasi Andrea Delmastro Delle Vedove. Anzi, la separazione delle carriere è stata negli anni varie volte nei programmi del Partito democratico, tra programmi elettorali e, addirittura, negli specifici programmi dei candidati segretari eletti dal suo stesso congresso. Il ministro, poi, che la porta avanti, Carlo Nordio, non è tipicamente l’idolo della destra tradizionalista, come è ben noto, ha un lungo passato da magistrato e non è certo un missino: non nasconde di aver tenuto in tasca la tessera del fu Partito liberale italiano. Proprio per questo motivo, la riforma spaventa così tanto una certa sinistra, perché la smaschera e rischia di trovare un consenso più ampio della semplice maggioranza. A ragion di ciò, la campagna comunicativa dell’opposizione ha scelto una linea durissima su questa riforma, utilizzando argomenti – come vedremo – di una bassezza e scorrettezza senza eguali. L’apice delle barricate si è tenuto in seguito al voto al Senato che ha approvato il testo della riforma, adesso in attesa della seconda lettura e, successivamente, di un potenziale referendum in primavera.

Proprio su quello, sul referendum, fa leva chi lancia un certo tipo di messaggi, un tentativo visto e rivisto di avvelenare il dibattito sulla riforma, di farne una questiona politica e un sondaggio sulla Meloni – disclaimer: col referendum sul lavoro non è andata benissimo. Si diceva, della sceneggiata in Senato, dove alcuni componenti dell’opposizione si sono alzati in protesta mostrando le immagini della Costituzione capovolta e i volti di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Nel parere di chi scrive, non esiste un argomento solido che sia uno per essere aprioristicamente contrari alla separazione delle carriere come principio. Esistono, ovviamente, argomenti validi per essere critici nei confronti della proposta fatta dal Governo e perplessità nella sua attuazione. Bastano per essere contrari in toto alla riforma? Probabilmente no, ma il punto è che non è questo il genere di contro-argomentazioni avanzate dalla sinistra. Per qualità e ipocrisia, la bassezza degli attacchi è la più spregevole vista in questa legislatura. Procediamo ad analizzare alcuni dei più sentiti.

Il pubblico ministero verrà sottomesso all’Esecutivo

La più diffusa e francamente la più ridicola. Ne abbiamo sentite di ogni, la deriva orbaniana, antidemocratica, immancabilmente fascista. Peccato che, e ciò ha tra l’altro portato vari malumori a destra, la posizione del pubblico ministero nella tripartizione dei poteri italiana resta invariata, rimane, infatti, parte dell’ordine giudiziario. Lo dice chiaramente l’articolo 3 del testo della riforma, che riporta chiaramente quello che sarebbe l’incipit del nuovo articolo 104 della Costituzione: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente”. Ma, ammettiamo che sia vero. Ammettiamo che la proposta di riforma prevedesse esplicitamente di sottomettere il pubblico ministero alla supervisione del potere esecutivo in qualche sua forma. Vorrebbe da dire che un rischio deriva antidemocratica sarebbe da anni in corso in tutte le principali democrazie europee: in Francia, il parquet, ovvero il pubblico ministero, è gerarchicamente subordinato al Ministero della Giustizia, in Spagna, il Fiscal General del Estado, ovvero il procuratore generale, è nominato dal Governo e deve seguire le sue direttive, in Germania il sistema è più decentrato ma sia i pm federali che statali hanno un certo grado di subordinazione all’Esecutivo, federale o del Lander, in più solo il giudice è costituzionalmente riconosciuto come membro del potere giudiziario, nei Paesi Bassi, uno dei Paesi con le migliori valutazioni in termini di indipendenza e fiducia dei cittadini nella magistratura (dati Eurobarometro 2023), il pubblico ministero fa parte del Ministero della Giustizia e della Sicurezza. Il fatto che ci sia ovunque non vuol dire necessariamente che sia meglio, ma di certo che questo rischio sovversione appare infondato. Tra l’altro, la diversa posizione nell’ordinamento costituzionale dei pubblici ministeri di Francia e Spagna, ad esempio, non gli ha affatto impedito di portare avanti indagini contro il potere esecutivo. Difatti, in Francia gli ultimi due presidenti della repubblica hanno avuto seri problemi con la legge e si vocifera che il prossimo potrebbe essere Emmanuel Macron, mentre in Spagna è ben nota a tutti come la magistratura stia facendo tabula rasa del Governo Sanchez.

Faceva parte del programma della loggia P2

Questa è una delle più strampalate. Sì, è vero la separazione delle carriere faceva parte del Piano di rinascita democratica di Licio Gelli e soci. Se è per questo, faceva anche parte del programma di elezione a segretario di Maurizio Martina, Pd. Squalificare un’idea semplicemente perché è stata sostenuta dalle persone sbagliate è quanto di più ingenuo esista. Tra l’altro, la cosa più grottesca e divertente è che questo fantasma della P2 e di Gelli è alimentato nientepopodimeno che dal Movimento 5 stelle. Verrebbe da suggerire agli ormai ex grillini e neocontiani di dare una letta a quel programma. Scoprirebbero che esso conteneva anche quella sciagura del taglio dei parlamentari, approvato in pompa magna proprio dal Movimento 5 stelle (con la connivenza di quasi tutti gli altri, va detto).

È un attentato alla Costituzione

Ci sono due piani per rispondere a questa ricorrente evocazione. Il primo è la stessa Costituzione, che viene letta a convenienza, con alcuni articoli citati a ripetizione e altri lasciati dimenticati nel cassetto – nessuno a sinistra nomina mai l’articolo 81, quello che impone l’equilibrio tra le entrate e le spese dello stato. A voler leggerla tutta, la Costituzione, all’articolo 111 si cita espressamente la necessità di un giudice terzo ed imparziale. Come fa un giudice ad essere realmente terzo se la sua posizione all’interno dell’ordinamento è consustanziale a quella di una della due parti? Come fa un giudice ad essere imparziale se la sua carriera potrebbe venire giudicata da una della due parti in Csm? Verrebbe da dire che la separazione delle carriere non attenta alla Costituzione, bensì le dà piena attuazione.

Il secondo piano è quello retorico. Quest’idea molto allusiva che, ogni tentativo di riforma costituzionale, sia un attacco alle fondamenta costitutive della nostra democrazia è una favoletta molto efficace ma poco razionale. Se è vero che il rango costituzionale a certe materie viene attribuito proprio per evitare che possano essere modificate facilmente, ciò ha molto più senso quando si tratta della parte relativi ai valori fondativi del nostro Stato. Che la prima parte della nostra Costituzione sia ciò che ci unisce tutti, e che sia da preservare, è indubbio. Che la seconda parte, relativo all’ordinamento della Repubblica, al suo assetto istituzionale e al suo design strutturale siano un dolmen imperturbabile che deve restare intatto allo stato dell’arte fissato nel 1948 è anacronistico. Tant’è vero, che alcuni istituti previsti della Costituzione sono stati attuati solo anni dopo la sua entrata in vigore, a dimostrazione della dinamicità di certe questioni.

La Riforma Cartabia ha già fatto la separazione delle carriere

Ottimo tentativo questo, ma colmo di malafede. La Riforma Cartabia, limitando fortemente il passaggio da un ruolo all’altro, non ha attuato la separazione delle carriere, bensì quella delle funzioni. Il problema non è, e non è mai stato, quello del salto da pm a giudice e viceversa, visto il numero esiguo di casi del genere. Si tratta, piuttosto, di una questione culturale, anche formale oltre che sostanziale: il pubblico ministero e il giudice, chi indaga e chi emette il verdetto, non possono essere colleghi. Non possono, per usare le parole di Giuseppe Benedetto in un saggio a sostegno della separazione, darsi del tu.

Vuole portarci definitivamente verso un sistema di stampo anglosassone

Argomentazione di stampo più accademico, più tecnico. Tipica degli ambienti in orbita Anm che mal hanno digerito il passaggio al sistema accusatorio del 1988. Nicola Gratteri ha mosso velatamente questa accusa a Nordio, dicendo che il sistema angloamericano non è assolutamente da prendere come esempio in termini di indipendenza e garanzie per l’imputato. Vero. Peccato che il modello a cui si tende non è quello anglo-americano. In America in prosecutor sono eletti, nel Regno Unito è prominente il ruolo politico dell’Attorney General. Nulla di tutto questo è previsto nella Riforma Nordio. Il modello di riferimento è palese e per nulla velato. Il famoso modello portoghese, che prevede un pubblico ministero assolutamente indipendente e un doppio Csm esattamente come nella proposta italiana. Anzi, a livello d’indipendenza l’architettura portoghese è anche maggiormente audace in termini di spazi per l’influenza degli altri poteri su quello giudiziario. Il procuratore generale portoghese è nominato su proposta del governo, mentre il Csm – così come in Spagna – prevede assoluta parità tra i componenti togati e quelli laici – come voleva la parte più reazionaria della destra. La proposta approvata in Senato prevede, invece, 2/3 di componenti togati e 1/3 di laici. Anche in questo caso, l’assetto portoghese, ormai in vigore da tanto e mai messo in discussione, non ha risparmiato il potere politico da annosi processi. Celebre è il caso Influencer che ha costretto alle dimissioni l’attuale presidente del Consiglio europeo, António Costa, in quello che, a posteriori, possiamo definire un errore giudiziario fatto e finito.

Non in nome di Falcone e Borsellino

Una cosa è certa, ai magistrati eroi della lotta antimafia non sarebbe piaciuto essere tirati nell’agone politico. Da una parte e dall’altra. Tuttavia, a dirla tutta, nonostante i vari tentativi di negarlo, è vero che Giovanni Falcone in varie interviste – anche vocali, per i miscredenti – si è espresso inequivocabilmente a favore della separazione delle carriere. La più netta delle sue dichiarazioni fu quella rilasciata a Mario Pirani di Repubblica il 3 ottobre 1991. Cosa direbbero poi, oggi, i compagni che criticano Paolo Borsellino del suo passato tra le fila del Movimento sociale italiano? La verità è che, sì, sarebbe opportuno non coinvolgerli in questo becero dibattito spicciolo, ma Falcone e Borsellino sono la testimonianza di quanto bisogno ci sia di riformare la giustizia italiana. Loro che adesso vengono ricordati come due dei maggiori esponenti della magistratura italiana, furono al tempo osteggiati dai loro colleghi più fedeli al sistema corporativo. Nessuno dei due fu mai eletto al Csm, Falcone si candidò nel 1990 e non venne eletto, il suo rammarico è riportato nelle pagine degli archivi de l’Unità. Neanche alla Dna, ideata dallo stesso Falcone, ci fu mai posto per loro.

Ci sono, poi, delle critiche mosse con più ragionevolezza, più studiate, più misurate. Chi dice che non risolve tutti i problemi del sistema-giustizia italiano dice un’ovvietà. Se pone una questione di allocazione delle priorità ha un argomento valido, ma non è detto che la separazione delle carriere non contribuisca sul lungo periodo alla questione della ragionevole durata dei processi. Ad esempio, un Gip davvero indipendente e non completamente asservito e appiattito sulle posizioni del pm, potrebbe in prima battuta archiviare tantissimi processi nati morti, che finiscono inesorabilmente con un’assoluzione in primo grado (circa il 50 per cento). Il tema della lentezza della giustizia, anche e soprattutto civile, resta, è lecito pungolare il Governo su questo. Inoltre, è legittimo essere scettici sul meccanismo del sorteggio, dal sapore giacobino. Qualcuno paventava che sarebbe stato più ragionevole disegnare una forma di sorteggio indiretto, in seconda istanza, ma non è detto che questa soluzione non possa essere esplorata per mezzo dei decreti attuativi.

Certo, è un po’ contraddittorio che ci decideva di usare la sua contrarietà al sorteggio per osteggiare la proposta del governo, faccia un intervento come l’ultimo del senatore Matteo Renzi. L’ex premier ha accusato il Governo di voler sostituire le toghe rosse con le toghe brune. Scenario plausibile, se fosse questo il caso, però, il sorteggio parrebbe allora la soluzione più adeguata per tagliare i tentacoli della piovra definitivamente. Anche qui, la sensazione è che abbondi l’opportunismo politico. Peccato, visto che proprio lo stesso Renzi è stato vittima dello stesso vigliacco meccanismo. Utilizzare la separazione delle carriere per muovere il proprio scacco nei confronti della Meloni è un atto vile, oltre che un’occasione sprecata.

Aggiornato il 24 luglio 2025 alle ore 10:26