
Al funerale di Giovanni Falcone, tra il dolore e la rabbia di una nazione ferita, due uomini si incontrarono. Da una parte Paolo Borsellino, il giudice che aveva raccolto il testimone insanguinato dell’amico, dall’altra Antonio Di Pietro, il magistrato che a Milano stava scoperchiando il verminaio di Tangentopoli. Le loro parole, in quella giornata tragica, furono poche ma definitive: “Tonì, facciamo presto, abbiamo poco tempo”, disse Borsellino. La battuta è stata svelata, a distanza di anni, proprio da Antonio Di Pietro. Non era solo un presagio, era un’investitura.
Quelle parole, oggi, suonano come l’epitaffio di un’occasione storica mancata, la più grande, forse, della nostra Repubblica. Non fu un semplice scambio di condoglianze tra colleghi. Fu la stretta di mano, mai formalizzata, di un’alleanza che avrebbe potuto saldare il Nord e il Sud in un’unica, devastante offensiva giudiziaria al cuore di un sistema criminale integrato.
Cosa si dissero veramente?
Al di là della frase riportata da Di Pietro, i due si promisero di coordinare le indagini. Borsellino aveva capito, così come Falcone prima di lui, che la mafia non era più solo coppola e lupara. Era finanza, era impresa, era il grande business degli appalti pubblici. Falcone stesso aveva incaricato i Ros di indagare su quel nesso e aveva spinto Di Pietro a guardare in quella direzione.
Quel dossier, “Mafia e Appalti”, era la chiave di volta, il punto di congiunzione tra le stragi siciliane e le tangenti milanesi.
Borsellino e Di Pietro non stavano combattendo due guerre diverse. Stavano combattendo lo stesso nemico su due fronti. A Milano, Di Pietro faceva crollare il castello di carte della politica e dell’imprenditoria corrotta; a Palermo, Borsellino indagava sugli stessi flussi di denaro e sugli stessi gruppi imprenditoriali del Nord che in Sicilia facevano affari con Cosa Nostra.
Immaginate la potenza di fuoco di queste due procure unite, di questi due uomini che mettono insieme le tessere di un mosaico nazionale.
Cosa avrebbero potuto fare insieme?
Se quell’alleanza avesse avuto il tempo di sbocciare, la storia d’Italia sarebbe diversa. Avrebbero potuto istruire un processo unico, un “Maxi Processo” non solo a Cosa Nostra, ma al blocco di potere politico-imprenditoriale-mafioso che per decenni ha governato e saccheggiato il Paese.
Sarebbe stata una rivoluzione, non solo giudiziaria. Avrebbe messo a nudo la complicità di pezzi dello Stato, quelle “zone grigie” che hanno permesso alla mafia di prosperare e alla corruzione di diventare sistema. Forse è proprio per questo che quell’alleanza doveva essere spezzata. La mafia uccide, ma non sempre fa tutto da sola.
La domanda più urticante, ancora oggi, non è cosa avrebbero potuto fare insieme, ma chi ha impedito che ciò accadesse. Perché Borsellino si sentiva così solo, tanto da definire il suo stesso ufficio un “nido di vipere”?
Perché una informativa dei Ros del 16 luglio 1992, che segnalava un imminente attentato per entrambi i giudici, arrivò a Palermo solo il 23 luglio, quattro giorni dopo la strage di via D’Amelio, spedita per posta ordinaria?
Perché lo Stato, che protesse Di Pietro a Milano, lasciò Borsellino così tragicamente esposto?
La bomba del 19 luglio non uccise solo un magistrato e la sua scorta. Uccise un’idea, una speranza, un progetto. Ha fatto saltare in aria il ponte che stava per unire Palermo e Milano, l’inchiesta che avrebbe potuto processare un’intera classe dirigente. “Facciamo presto, abbiamo poco tempo”. Il tempo, a Paolo Borsellino, non fu dato. E il nostro Paese, da allora, attende ancora una verità che, forse, era a un passo dall’essere svelata.
Aggiornato il 23 luglio 2025 alle ore 12:01