L’Occidente e il suo futuro

Cosa possiamo affermare, con onestà intellettuale, d’aver salvato dell’insegnamento dell’Epitaffio di Pericle? A distanza di poco meno di 25 secoli, quanto possiamo dirci certi della presupposta superiorità della democrazia occidentale se messa a confronto con le forme politiche orientali, quelle che definiamo democrazie illiberali, autocrazie o teocrazie? Il pronunciamento di Pericle, anticipando di oltre 20 secoli le moderne costituzioni del XVIII secolo, mette l’accento sul principio di uguaglianza fra i cittadini della polis. Anticipando quella americana del 4 luglio 1776, che in incipit afferma, prendendo a testimone il comune senso di sudditanza nei confronti di un ente superiore, che non esistono differenze fra individui: “Tutti gli uomini sono creati uguali; essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, fra questi la Vita, la Libertà e il perseguimento della felicità. E quella di poco successiva; del 26 agosto 1789, esito giuridico della Rivoluzione francese.

Pericle nell’epitaffio per i caduti della guerra del Peloponneso scrive: “Noi abbiamo una forma di governo che non guarda con invidia le costituzioni dei vicini, e non solo non imitiamo gli altri, ma, anzi, siamo noi stessi di esempio a qualcuno. Quanto al nome, essa è chiamata democrazia, poiché è amministrata non già per il bene di poche persone, bensì di una cerchia più vasta”. E prosegue, noi ad Atene “se guardiamo alle leggi, esse offrono uguale giustizia a tutti nelle loro differenze private”. E, ancora: “La libertà di cui godiamo nel nostro governo si estende anche alla nostra vita ordinaria”. E va oltre, non solo i cittadini ateniesi hanno uguali diritti, anche gli stranieri, siano essi xenoi o barbari, godono degli stessi diritti della polis: “Apriamo la nostra città al mondo, e mai per atti alieni escludiamo gli stranieri da ogni opportunità di apprendere o osservare, anche se gli occhi di un nemico possono occasionalmente trarre profitto dalla nostra liberalità”.

Cos’è rimasto, nell’attuale cultura politica occidentale, della pietas e della res pondus romana, in un occidente dove chi comanda stabilisce il giusto e l’ingiusto con la bilancia dei valori economici e commerciali. Quanto ci siamo allontanati dalla pietas, la splendida virtù che Virgilio attribuiva a Enea, il fondatore di Roma? Cosa resta dell’insegnamento della pietas, la più romana delle virtù, che comprendeva in se il rispetto per gli avi e la devozione agli dei e alla patria? A che profondità del nostro io interiore dovremmo scavare per ritrovare la res pondus romana, il saper farci carico della responsabilità del ruolo assegnatoci di guardiani di un pianeta che non ci appartiene. I romani costruirono strade e su queste strade impararono a conoscere e ad assimilare i non romani. Oggi costruiamo muri, steccati, barriere, ideologiche e, ancor peggio, fisiche per non vedere il dolore, la miseria di chi arriva da lontano. Dimentichi che siamo tutti pellegrini sul terraqueo pianeta che ci accoglie.

Ci professiamo cristiani, e per certi versi lo siamo, ma del insegnamento cristiano cosa siamo disposti a seguire? Lo siamo a corrente alterna, quando ci fa comodo, quando non ci chiede troppi sacrifici. Immanuel Kant, rovesciando il precetto cristiano del non fare agli altri, in “fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te stesso”. Intendendo con gli altri non solo i parenti, i vicini di casa o i connazionali, ma tutti gli abitanti del mondo, ci aveva indicato una strada da seguire, ma ormai le sue parole si sono disperse nel vortice del tempo. C’è un nesso comune fra il proclama di Pericle, la civiltà romana e il messaggio portato dal Cristianesimo? Se sì questo è la fiducia nellumanità, l’apertura agli altri, lo sguardo benevole verso il mondo.

Dove sono finiti i visionari di un tempo, come il Cesare Beccaria che assegnava allo Stato il compito di realizzare “la massima felicità divisa nel maggior numero di individui”, o i padri nobili della democrazia liberale: John Locke, Alexis de Tocqueville e, per certi aspetti, Voltaire. Oggi l’uomo occidentale, non tutti certamente, ma buona parte di coloro che hanno voce sufficiente per farsi sentire, vivono arroccati nella loro torre eburnea. Circondati da un mare di irrazionale paura. Paura di perdere più il superfluo che l’indispensabile, immemori che il mondo non finisce con noi, che anche le prossime generazioni hanno diritto a un futuro. Paura che chi viene da luoghi lontani sia necessariamente un portatore di disordine, un untore venuto con l’unico scopo di ammorbarci con virus pestilenziali o arrivato per rubarci il lavoro, e allora erige muri, di contrapposizione, di gerarchie ontologiche, paletti burocratici, muri fisici e fili spinati a difesa dell’indifendibile.

La paura l’insicurezza collettiva che parte dal basso, dal sentire comune, ha trovato la sua grancassa nella classe politica che governa l’Occidente. Una classe politica che sopravvive enfatizzando la paura, che ne crea sempre di nuove. Una politica che non indirizza verso valori, priva di veri statisti: realisti utopici che sanno vedere oltre il buio della siepe. Una politica miope, di pura sopravvivenza, che non guarda al futuro, che non offre margini di miglioramento alla società, incatenata alla paura, priva di ideali, ma prona agli umori del ventre del popolo. Una politica che non conosce la differenza fra patriottismo, ovvero il riconoscersi nei valori del proprio popolo, della propria nazione e il nazionalismo, l’andare alla costante ricerca di un diverso da sé, di un nemico, individuato nello straniero, questa classe politica potrà mai farci sentire orgogliosi di essere i figli di Atene, Roma e gli eredi del pensiero cristiano?

Credo che una delle possibili vie duscita da questa crisi della democrazia occidentale possa venire dal pensiero di Karl Popper, a partire dalla sua affermazione che: “la democrazia siamo noi!”che la democrazia di per sé non può fare niente per i cittadini, sono invece questi ultimi che debbono agire, naturalmente all’interno delle istituzioni democratiche, per cambiare lo stato delle cose. A questo proposito Popper scrive: “La democrazia non è altro che uno schema entro il quale i cittadini possono agire”. Dobbiamo cambiare noi per cambiare lo Stato, e possiamo cambiare se lo vogliamo proprio grazie al fatto che viviamo in democrazia, condizione che ci garantisce la liberà di pensare e di agire nella speranza di poter aspirare ad un futuro migliore.

(*) Società Libera

Aggiornato il 22 luglio 2025 alle ore 13:05