Un fumo di ipocrisia

Perché l’Ue non vuole davvero ridurre i danni del tabacco

L’ipocrisia del paternalismo sanitario europeo emerge con chiarezza quando si osservano le politiche sul tabacco. Da un lato, Bruxelles tollera la vendita di sigarette tradizionali, nonostante i loro effetti siano ben noti; dall’altro, continua a ostacolare con divieti e restrizioni i prodotti alternativi che, in molti casi, aiuterebbero concretamente a ridurre o superare la dipendenza. Dietro questa incoerenza non c’è la tutela della salute, ma il desiderio di proteggere il gettito fiscale. Il governo Meloni, che di recente ha mostrato timidi segnali di apertura in chiave liberale (almeno) sul piano economico, dovrebbe far sentire maggiormente la propria voce in sede europea per difendere i reali interessi dei fumatori, sia in termini di diritto alla scelta consapevole sia in termini di salute e risparmio.

Ad oggi, in nessun Paese europeo la vendita di fumo tradizionale è vietato. Certo vi sono forti restrizioni imposte dall’alto che riguardano pubblicità, etichettatura, esposizione nei negozi e soprattutto tassazione (che si traduce, ovviamente, in trasferimento sul prezzo finale), ma nessun governo si sogna di mettere al bando le sigarette, nonostante i numerosi problemi denunciati dalla comunità scientifica e che coinvolgono non solo la salute dei fumatori  ̶  attivi e passivi  ̶  ma anche, e per certi versi soprattutto, dell’ecosistema.

Al contrario, i dispositivi per il fumo alternativo (buste di nicotina, sigarette elettroniche, dispositivi a tabacco riscaldato, vaporizzatori, e simili) subiscono un quadro normativo significativamente diverso. Per esempio, il governo del Belgio ha vietato nel 2023 la vendita delle buste di nicotina e, più recentemente, la vendita di sigarette elettroniche sia online sia nei negozi, seguendo così la fallimentare politica di Danimarca e Lituania. Anche in Italia, la situazione sul fumo alternativo è diventata molto più restrittiva negli ultimi anni.

Inoltre, la Tobacco Excise Directive, ovverosia la normativa dell’Unione Europea che stabilisce le strutture e le aliquote minime di accisa applicabili ai prodotti del tabacco, è attualmente in fase di revisione per includere i prodotti alternativi e stabilire nuove misure anti-frode e di controllo del movimento dei prodotti.

Queste politiche seguono l’agenda generale promossa da Bruxelles con il fine di creare nel prossimo futuro una “generazione libera dal tabacco”. Tra gli obiettivi a breve e medio termine, vi sono la riduzione del consumo di prodotti del 30 per cento entro la fine di quest’anno e della percentuale di fumatori dal 25 per cento al 5 per cento entro il 2040. La verità è che tutte queste politiche proibizioniste hanno fortemente favorito il mercato nero, che spesso mette a disposizione sostanze ben più pericolose del fumo tradizionale.

Ciò che maggiormente ci interessa in questa analisi, tuttavia, è capire perché sussiste una simile disparità di trattamento da parte di Bruxelles e dei suoi governi vassalli verso i due principali segmenti del mercato del tabacco: quello tradizionale e quello alternativo. Come mai alcuni prodotti vengono vietati o sottoposti a forti restrizioni, mentre altri no? Quali dinamiche si celano dietro questa apparente lacuna?

Perché penalizzare il commercio delle buste di nicotina, le quali non producono fumo e non espongono i consumatori a sottoprodotti della combustione, come il catrame e il monossido di carbonio, cioè le principali cause del cancro e di vari danni al sistema cardiovascolare e polmonare?

Come evidenzia un importante portale di informazione dedicato alla riduzione del danno da fumo, le spinte verso le restrizioni sui prodotti alternativi provengono in larga parte dai grandi gruppi di controllo del tabacco e dalle organizzazioni di salute pubblica. Si tratta per lo più di entità sovrastatali e parastatali che esercitano notevole influenza tra i funzionari eletti in molti Paesi europei e nell'Unione.

Queste realtà sollevano preoccupazioni in se stesse legittime, in particolare sul potenziale rischio che alcuni prodotti  ̶  come le buste di nicotina  ̶  possano attrarre i più giovani. Tuttavia, il dibattito scientifico resta aperto: al di là dell’effettiva capacità della nicotina di generare dipendenza, non esistono evidenze consolidate sugli effetti direttamente nocivi di questa sostanza in assenza di combustione.

Perché allora questo accanimento verso il fumo alternativo? La risposta è molto semplice. Le istituzioni pubbliche traggono vantaggi fiscali diretti dalla vendita di sigarette combustibili, mentre non hanno, per il momento, alcun incentivo—anzi, rischiano di perdere gettito—nel favorire l’adozione di alternative meno dannose. Dietro l’immagine utopica di un’Unione europea impegnata a costruire una generazione sana e libera dal fumo, si nasconde ben altro: la sola idea che i fumatori possano davvero scomparire fa tremare i burocrati di Bruxelles. Perché significherebbe privare la macchina fiscale di un flusso di entrate che, senza tabacco, sarebbe difficilmente compensabile.

In Italia, com’è noto, la vendita del tabacco è monopolio di Stato. Solo i rivenditori autorizzati possono commercializzare sigarette e altri prodotti da fumo, secondo i prezzi e le modalità stabilite dal governo. Le relative accise  ̶ cioè quelle imposte indirette applicate su specifici beni di consumo, come tabacchi, carburanti, alcolici, energia elettrica e altri  ̶  garantiscono entrate stabili e immediate, e rappresentano una delle principali fonti di gettito fiscale. Nel solo 2023, lo Stato italiano ha incassato circa 15 miliardi di euro in accise e Iva sui prodotti da fumo e inalazione. Inoltre, dal 2015 al 2023, le entrate da accise sono aumentate di circa 4,7 miliardi di euro, con una crescita del +46,6 per cento.

È evidente allora che una lotta alla dipendenza da fumo combusto, se perseguita seriamente, porterebbe al crollo drastico di queste entrate. Lo Stato, quindi, si trova davanti a un clamoroso conflitto d’interessi: da un lato proclama il primato della salute, dall’altro trae profitto da una delle principali cause di morte evitabili. In questo gioco delle parti, la propaganda sanitaria serve esclusivamente da paravento ideologico per nascondere una realtà ben più prosaica: la difesa di un flusso costante di denaro.

L’accettazione delle alternative su un mercato libero del tabacco comporterebbe, verosimilmente, la riduzione effettiva dei consumatori di tabacco tradizionale, come avvenuto per esempio in Svezia. Questo però costringerebbe la classe dirigente a mettere in discussione tutto l’impianto fiscale che oggi si fonda sul fatto che una parte assai considerevole della popolazione è dipendente dal fumo. Potremmo dire, con un po’ di tragica ironia, che il primo ad essere dipendente dal fumo tradizionale è proprio lo Stato!

È qui, pertanto, che si rende necessaria e persino urgente una risposta politica coerente e coraggiosa, a livello sia nazionale sia europeo. La classe politica più sensibile alla libertà individuale e all’innovazione tecnologica dovrebbe contrastare apertamente questa deriva proibizionista.

Sono tre i veri obiettivi da perseguire contro questa velenosa agenda dell’ipocrisia: difendere la libertà responsabile, promuovere l’innovazione utile e smascherare l’ipocrisia degli Stati. Una politica degna di questo nome dovrebbe concentrarsi su queste direttive. Se davvero si vuole una società più sana, occorre trattare il cittadino da uomo libero, non da schiavo fiscale da illudere e impoverire. Solo così la classe politica potrà dire di essere al servizio, e non di tradire, il bene dei fumatori.

Aggiornato il 22 luglio 2025 alle ore 10:39