
Quando nel settembre del 1993 Yitzhak Rabin e Yasser Arafat si strinsero la mano sul prato della Casa Bianca, sotto lo sguardo compiaciuto di Bill Clinton, il mondo assistette a quella che molti definirono una svolta storica. Lo fu, almeno nel gesto e nelle intenzioni. Ma a più di trent’anni di distanza, il processo di pace inaugurato dagli Accordi di Oslo viene ricordato non per la sua promessa, ma per il suo fallimento. Le ragioni di questo fallimento sono molteplici e intrecciate: strutturali, politiche, psicologiche. E le parole dei protagonisti aiutano a comprenderne il significato più profondo. Gli Accordi di Oslo erano, in effetti, costruiti su fondamenta fragili. Non affrontavano in modo diretto le questioni più controverse – Gerusalemme, i rifugiati, i confini definitivi, gli insediamenti – ma le rimandavano a una “fase finale” indefinita, nella speranza che il tempo e la cooperazione le rendessero più gestibili. In realtà, questo rinvio non fece che accrescere le tensioni.
Ogni parte interpretò gli accordi secondo la propria visione: Israele li vide come uno strumento per garantire sicurezza e contenere il nazionalismo palestinese entro una cornice amministrativa; i palestinesi come un primo passo verso la piena sovranità e la fine dell’occupazione. Rabin, da parte sua, affrontò con lucidità e coraggio il rischio politico. Nel suo discorso alla Knesset disse: “Non vi è pace senza rischi, ma senza la pace tutti i rischi sono certi”. E ancora, sul prato della Casa Bianca, guardando negli occhi Arafat, dichiarò: “Noi combattiamo i palestinesi da anni. Ma ora diciamo: basta sangue e lacrime. Basta”. Era la voce di un uomo che aveva combattuto in tutte le guerre d’Israele, ma che sapeva che la forza non può risolvere tutto. Il suo assassinio, nel novembre 1995, fu un trauma collettivo, non solo per Israele ma per l’intero processo di pace. Ucciso da un estremista israeliano che lo considerava un traditore, Rabin cadde vittima della stessa radicalizzazione che gli accordi avrebbero dovuto disinnescare. La sua morte segnò la fine del “momento Oslo” come possibilità reale.
L’assenza di Rabin lasciò spazio a una progressiva erosione della fiducia reciproca. Benjamin Netanyahu, eletto primo ministro nel 1996, fu da sempre scettico su Oslo. Pochi mesi dopo la sua elezione, dichiarò: “Oslo è un errore storico che ha portato il terrorismo alle porte delle nostre città”. In una conversazione privata, trapelata anni dopo, avrebbe persino affermato: “Come si neutralizza Oslo? Ci si attiene formalmente agli accordi, ma si fa in modo che i palestinesi non ottengano mai un vero Stato”. Queste parole riassumono una strategia di contenimento piuttosto che di soluzione del conflitto e ben rappresentano il clima che si impose in Israele dopo la scomparsa di Rabin: una combinazione di paura, sfiducia e cinismo. Sul fronte palestinese, anche Yasser Arafat si trovò preso tra due fuochi: da un lato la pressione diplomatica per dimostrare di essere un interlocutore credibile, dall’altro la crescente impazienza del suo popolo, frustrato da uno status quo che sembrava perpetuarsi. Durante la cerimonia del 1993 aveva affermato: “Il mio popolo ha sofferto troppo a lungo. Questo è l’inizio della fine dell’occupazione e l’inizio della libertà”. Ma pochi anni dopo, in un comizio a Gaza, ammise con amarezza: “La nostra gente ha creduto che Oslo portasse la pace. Invece ci siamo trovati con più colonie, più check-point e più umiliazioni”.
Arafat fu accusato da Israele di non voler davvero fermare la violenza, e allo stesso tempo perse consenso interno, anche per la crescente percezione di corruzione e inefficacia dell’Autorità nazionale palestinese. Gli insediamenti israeliani continuarono a espandersi, mentre i gruppi radicali palestinesi, in particolare Hamas – esclusi da Oslo, ma incombenti già allora come ombre minacciose sulla politica di Arafat – intensificarono gli attacchi contro civili israeliani. Questo ciclo di azioni e reazioni alimentò una spirale di sfiducia che finì per logorare ogni spazio negoziale. Shimon Peres, uno degli architetti di Oslo, cercò di mantenere la visione: “L’accordo di Oslo non è un punto d’arrivo, ma un punto di partenza: un laboratorio per immaginare un futuro in cui arabi ed ebrei collaborano invece di combattersi”. Ma questa prospettiva venne sempre più percepita come utopistica. Edward Said, tra i critici più autorevoli del processo, scrisse fin dal principio: “Oslo è un documento di resa, un secondo Sykes-Picot, che legittima l’occupazione senza porvi fine”. Bill Clinton, che tanto aveva investito nel processo, non nascose la sua delusione. Dopo il fallimento del vertice di Camp David del 2000, accusò Arafat di aver rifiutato un’offerta generosa: “Arafat ha lasciato passare l’occasione. Era pronto a prendere il 90 per cento della Cisgiordania, ma ha detto no. Non ho mai visto un leader dire di no a così tanto”.
I palestinesi replicarono che quella proposta non risolveva questioni cruciali come Gerusalemme Est e il diritto al ritorno dei rifugiati. Mahmoud Abbas, firmatario di Oslo per l’Olp, ebbe a dire anni dopo: “Oslo non era una soluzione, ma un’opportunità. Siamo tutti responsabili di non averla colta”. Così, ciò che era nato come un atto di coraggio e visione si trasformò in un paradigma di disillusione. L’assassinio di Rabin tolse al processo la sua figura più credibile e simbolica. La crescita degli insediamenti, l’assenza di un garante imparziale, l’incapacità di affrontare le questioni di fondo e l’ascesa delle ali radicali portarono al collasso del progetto. La Seconda Intifada, esplosa nel 2000, fu il colpo di grazia. Oslo resta oggi una lezione amara. Dimostra che la pace non può essere costruita solo con le firme, le strette di mano e le buone intenzioni. Richiede coraggio duraturo, volontà politica, e soprattutto un’assunzione di responsabilità reciproca. E come ricordava Rabin, “la pace si fa con i nemici, non con gli amici”. Ma quando i nemici restano tali anche dopo l’accordo, e i leader capaci che s’impegnano per arrivare a una soluzione del conflitto vengono eliminati, allora il cammino verso la pace si fa impervio. O forse impossibile. E tuttavia, il futuro non è stato ancora scritto. Se Hamas venisse effettivamente sconfitto a Gaza e privato del potere nella Striscia, e se a questo scenario seguisse un cambiamento di Governo in Israele – ipotesi oggi tutt’altro che inverosimile – potrebbe aprirsi un nuovo spazio negoziale. In quel caso, le condizioni politiche sarebbero radicalmente diverse da quelle degli anni Novanta: la leadership palestinese potrebbe essere unificata sotto un’autorità civile più credibile e non armata; Israele potrebbe essere guidato da forze centriste più disposte al compromesso e la comunità internazionale, forte dell’esperienza di Oslo, potrebbe forse assumere un ruolo più efficace.
Una pace stabile richiederebbe certo, anche oggi, non solo trattative tecniche, ma anche una graduale trasformazione culturale, un lavoro di riconoscimento reciproco, di ricostruzione delle narrazioni, di educazione alla convivenza. La sconfitta di Hamas e poi il declino del blocco nazionalista israeliano potrebbero costituire le condizioni preliminari per un nuovo inizio, e forse proprio nel fallimento di Oslo si possono rintracciare ancora oggi le indicazioni più preziose per un processo di pace che voglia davvero conseguire il suo obiettivo finale. Ma se la prima premessa per conseguire un simile risultato è la sconfitta di Hamas, e la seconda un cambio di Governo in Israele, la prima sembra ogni giorno più problematica. Colpire per un altro “errore tecnico”, dopo quelli dei giorni scorsi, una chiesa cattolica nei pressi di Gaza City, provocando la morte di tre persone innocenti e ferendone altre rischia infatti di spostare ulteriormente gli equilibri internazionali a favore dei nemici d’Israele, vanificando il suo sforzo bellico e i suoi costi geopolitici, tanto da far sorgere il sospetto che il Governo israeliano sia animato da un’autentica vocazione autolesionistica, di cui naturalmente rischia di fare le spese soprattutto il popolo che lo ha incaricato di governare il Paese.
Aggiornato il 18 luglio 2025 alle ore 12:48