Galli della Loggia, Giuli e la “destatalizzazione” della Cultura e della Rai

La recente polemica tra Ernesto Galli della Loggia, il ministro Alessandro Giuli e il Corriere della Sera, con l’accusa da parte del secondo al giornale di avere censurato una sua intervista rende evidente che da un lato il potere politico non gradisce critiche troppo caustiche e dall’altro che la cosiddetta “cultura” non accetta che a proporre progetti e finanziamenti sia uno schieramento, bello o brutto che sia, che è stato a guardare per anni quello che accadeva nelle stanze del potere. Il professore, nel suo editoriale dell’11 luglio 2025 sul Corriere della Sera, ha rivolto delle dure critiche focalizzandosi sul rapporto tra “cultura di destra” e gestione ministeriale attuale. Le sue osservazioni principali sono state sull’assenza di una vera visione culturale di “destra”, Galli della Loggia sostiene che il Governo Meloni non abbia saputo definire una strategia autenticamente nuova, limitandosi piuttosto a operazioni di gestione e occupazione degli incarichi.

Secondo lo storico, non si è saputo cogliere l’opportunità di promuovere una visione culturale innovativa per l’Italia. Invece di iniziative ambiziose, come la creazione di nuove istituzioni culturali o musei, la destra avrebbe adottato un approccio burocratico e privo di slancio. Galli della Loggia descrive poi la Rai come un “polveroso deserto di idee”, che invece “avrebbe potuto essere uno strumento prezioso per insegnare agli italiani a essere meno faziosi; avrebbe potuto servire per metterli un po’ al corrente delle molte cose del mondo di cui sono in genere digiunissimi, e dunque anche per far loro sapere che cosa sono davvero lo spettacolo, l’ironia, l’anticonformismo, la cultura, i libri, l’intelligenza. Non si poteva trasmettere a viale Mazzini una direttiva in questo senso invece di obbligarci a vedere ogni sera tristi ragazze rifatte, tristi comici spompati e fiction raccapriccianti?

Non si poteva avere un po’ di coraggio, di ambizione?”. Ma siamo sicuri che il ruolo di un Ministero della Cultura sia proprio quello dell’educatore governativo? Siamo certi che istituire nuovi enti pubblici finanziati con le nostre tasse rilancerebbe l’immagine dell’Italia nel mondo? Siamo veramente convinti che la Rai debba “insegnare” qualcosa agli italiani e sia pertanto necessario che il governo invii direttive alla televisione di stato come nei migliori regimi totalitari? Non crediamo proprio, anzi il suo ruolo dovrebbe essere proprio il contrario. La storia italiana, dal fascismo al collateralismo Dc-Pci, suggerisce cautela. E Galli della Loggia sembra proporre ancora più statalismo dove invece ce ne vorrebbe di meno, si crede paradossalmente che la cura del male sia il male stesso. Servirebbe invece la “destatalizzazione della cultura” e un dibattito serio e trasparente sul ruolo dei media pubblici, che non dovrebbero essere strumenti di propaganda governativa né semplici contenitori di intrattenimento banale, magari ripensando alla governance della Rai in analogia di quello della Bbc, in maniera tale da garantire maggiore indipendenza, pluralismo e qualità, in cui il servizio pubblico non sia percepito come una ramificazione della partitocrazia. Ma questo credo che sia la più irrealistica ed irrealizzabile delle idee visto che tutti i partiti muoiono dalla voglia di entrare a pieno titolo in Rai. D’altronde l’attuale Ministero della Cultura è la mutazione progressiva di quello “per i beni culturali e ambientali” che fu istituito nel 1974 dallo scorporo dal Ministero della Pubblica istruzione nell’ambito del Governo Moro IV e di cui fu incaricato Giovanni Spadolini. Ma allora le finalità della sua nascita erano ben diverse. Infatti, recitava il primo articolo della legge istitutiva: “Il Ministero per i beni culturali e ambientali provvede alla tutela e alla valorizzazione dei beni culturali e ambientali, archeologici, storici, artistici, archivistici e librari”.

Via via molto è cambiato fino ad arrivare ad oggi, passando per la cosiddetta “Riforma Bassanini” del Governo di sinistra guidato da Romano Prodi, con la quale le competenze del ministero furono estese alla promozione dello Spettacolo dello Sport divenendo un centro di spesa per finanziare film, fiction, eventi in generale che poco hanno a che fare con la valorizzazione dell’immenso patrimonio dei beni culturali e ambientali italiani per cui era nato il dicastero. La critica che andrebbe rivolta al ministro Giuli e al Governo Meloni sarebbe invece quella di non avere rimesso le cose a posto e di non essere intervenuti nel modificare quelle competenze che comportano solo l’estensione di un potere statalista e “burocratista”. L’autentica cultura dovrebbe essere libera e “destalizzata”, in grado di autosostenersi, altrimenti tutto diventa, oltreché egemonia gramsciana, accaparramento di risorse con progetti che peraltro, come il già ministro Gennaro Sangiuliano ha rilevato non incontravano nemmeno il gradimento del pubblico. Andrebbero poi esplorati gli esempi internazionali di successo (es. fondazioni private, mecenatismo diffuso, partenariati pubblico-privati) e valutare la loro applicabilità al contesto italiano, tenendo conto delle specificità del nostro patrimonio culturale. Fino a quando però questo non avverrà, accadrà quello che sembra, secondo alcune indagini appena concluse, essere successo in Sicilia, con il coinvolgimento di alcuni esponenti di Fratelli d’Italia isolani.

D’altronde, la magistratura svolge solo il compito che la Costituzione gli assegna restando fermo il principio che fin quando non si arriverà ad una verità giudiziale nessuno è colpevole. Ma si apre però la questione della selezione del ceto politico e su cui la Meloni non può dire “io non sapevo, io non vedevo, io non capivo”, perché con l’attuale sistema di nomina degli incarichi al Governo regionale le responsabilità politiche, a differenza di quelle giudiziarie che rimangono personali, sono tutte in capo ai dirigenti, così come quelle sulle candidature sia locali che nazionali. Infatti, quello che è arrivato ai posti di potere è espressione di Fratelli d’Italia e delle sue correnti: un partito come tutti gli altri che pertanto non può “guardare nessuno negli occhi”. Proprio per questo il nodo “cultura” resta politico: qual è il contributo di innovazione del partito meloniano per la valorizzazione e la gestione del patrimonio dei beni culturali e ambientali della Sicilia e dell’Italia?

Dall’altro lato se non si libera la cultura e la si sgancia dalla pervasività di tutti partiti riducendo la partecipazione dello stato a iniziative promosse con fondi pubblici non cambierà nulla e tutto sarà relegato alla buona volontà di questo o di quel ministro, pur onesto e capace che sia (Sangiuliano e Giuli compresi). Troppo poco. La buona volontà non basta. Sarebbe meglio avere istituzioni capaci di resistere all’incapacità di chi le guida che avere dirigenti capaci ma alla guida di organismi magari troppo burocratizzati. Esempi come il Getty Museum di Los Angeles o la Fondation Louis Vuitton in Francia dimostrano che il mecenatismo privato o azioni come l’Art Bonus possono contribuire a sostenere la cultura. In Italia il patrimonio dei beni culturali sappiamo che richiede inevitabilmente fondi ingenti e quelli privati sarebbero utili ma insufficienti, perciò si potrebbe incentivare ulteriormente il meccanismo dei benefici fiscali per coloro che decidono di investire in questi ambiti riducendo così quelli pubblici. Peraltro le iniziative di mecenatismo internazionale potrebbero proiettare un’immagine più autentica dell’Italia rispetto a quella che ne deriva dall’attuale azione governativa centralizzata.

Per il resto a chi come Giovanni Pizzo sul Riformista si è interrogato il 10 luglio scorso su “che fine hanno fatto gli intellettuali della destra?”, diciamo che in tanti fanno quello che ha scritto Marcello Veneziani su La Verità il 13 luglio 2025: sanno che cos’è la politica e per questo ne stanno lontano, senza offrire a nessuno, nemmeno alla Meloni, consensi assoluti, incondizionati, aprioristici, perché, come scriveva Giuseppe Prezzolini sono degli “apoti” cioè “quelli che non la bevono.” Non credono alla propaganda dei “giornaloni”, non si entusiasmano ai richiami delle folle, non partecipano alle fiere dell’ottimismo, non si nutrono dei piatti preparati dalla cucina della menzogna. Gli apoti sono pochi. Non si conoscono tra loro. Ma si riconoscono. Continuano a svolgere il loro compito di critica, di analisi e di proposta grazie a quelle testate giornalistiche, a quelle case editrici, a quelle fondazioni e associazioni e a quei media indipendenti in cui è ancora possibile esprimere il loro libero, anche se a volte caustico, pensiero. Infine, un certo mondo intellettuale di destra dovrebbe riflettere su come recuperare però più autonomia critica senza avere la paura di essere tacciati di tradimento dai corazzieri del pensiero dominante, riprendendo quella tradizione di pensiero che privilegiava l’argomentazione rigorosa e la pluralità di voci invece della semplice difesa a oltranza, mantenendo il coraggio di dissentire dalle leadership, favorendo il confronto con altre anime culturali per arricchire il proprio sguardo e superare steccati ideologici rigidi, promuovendo idee che possano realmente incidere sul contesto anziché limitarsi a un ruolo strumentale di stampella del potere, che peraltro prima o poi passerà di mano.

Aggiornato il 17 luglio 2025 alle ore 09:41