Hegel e von der Leyen nell’arte della guerra

Il Novecento è certamente stato il momento in cui le grandi conflittualità sociali, nate nel secolo precedente, hanno dato i loro frutti: buoni o cattivi, a seconda dell’alternarsi dei punti di vista al potere. La guerra, come “atto necessario e utile ai popoli”, potremmo facilmente sostenere incarni le fondamenta della storia umana: l’atto fondativo della società europea sia politica che letteraria e, volendo, nulla è di più attuale della narrazione omerica, perché ogni nazione oggi potrebbe rivedersi in Troia e nel suo destino. Perché, ieri come oggi, il destino dei popoli viene deciso da entità superiori, quel potere che da circa cinque anni è tornato interlocutore diretto d’un Olimpo che credevamo aver storicizzato, anzi archiviato nel limbo della storia. I nostri nonni, che ci raccontavano della Prima e della Seconda guerra mondiale, avevano abitudini e convinzioni lontanissime dalle nostre, ed il loro fine educativo ci ha traghettato nelle contrapposizioni degli anni ‘60 e ‘70: contrapposizioni e mistificazioni, perché a tavola, mentre scorrevano le immagini dei telegiornali in bianco e nero o si commentava la vita quotidiana, sostenevano “c’è troppa libertà per i giovani, ci vorrebbe una guerra”. Lo ripetevano senza troppa convinzione, come un ritornello, e sapevamo che in casa dell’operaio c’era chi sentenziava “piove governo ladro”.

In quello spazio temporale tra i ‘60 ed i ‘70 i canoni dell’educazione sociale stavano rapidamente mutando e nuove mistificazioni prendevano il posto delle vecchie. Per i nonni borghesi e tradizionali non si doveva cadere nella trappola di parlare di politica al bar, perché la gente t’ascolta, e non sai mai chi s’intrufola nel discorso e si mette in confidenza. Per gli operai il bar era assurto a luogo di propaganda di quanto appreso nelle sezioni del partito comunista. Non dimentichiamo che, fino agli anni ‘60, girava ancora per locali quel maresciallo in borghese che, tra bar e circoli ricreativi, prendeva appunto dei facinorosi, quelli che parlavano male della guerra (ed erano gli anni del Vietnam) e di politica (era il momento delle lotte operaie): figura che abbiamo visto rispuntare sotto pandemia, e con i tanti identificati perché colti nei bar a criticare Conte, Draghi ed il potere. La mistificazione che “i comunisti sono pacifisti e gli altri vogliono la guerra” aveva rappresentato il cavallo di Troia in Occidente del Partito Comunista Italiano, che per primo (prima anche che a Parigi) organizzava su impulso diretto di Stalin il “movimento dei Partigiani della Pace” (propagandato tra il 1951 e il 1956 nel pieno della guerra di Korea): così i “Partigiani della Pace” italiani aprivano la stagione dei grandi appelli internazionali. L’Occidente reagiva con una “politica di distensione”, affermando la necessità di una “pace armatissima” anche europea: ma ciò non determinava il declino della mobilitazione partigiana pacifista nei cosiddetti partiti di sinistra.

Va detto che in quegli anni, troppo vicini al Secondo conflitto mondiale, la guerra non la volevano in politica le sinistre come le destre ed il centro. La guerra la volevano, allora come ora, i poteri finanziari ed industriali. E si rivelava utile perché gli intellettuali elaborassero la più grande mistificazione ed occultamento circa la conflittualità intrinseca alla filosofia marxista: sostenendo che il marxismo è pacifismo e considerazione della storia come un succedersi di lotte tra classi portartici di interessi contrapposti. I “Partigiani della Pace” se ne convincevano, e dall’inizio della Guerra fredda divulgavano questa truffa ideologica tra campagne e fabbriche, scuole e atenei. A conti fatti, la guerra come la pace è anche frutto della propaganda: oggi, che a pagare non c’è più l’Unione Sovietica ma il potere bancario europeo e occidentale, una grossa fetta della ex sinistra pacifista s’è schierata con la guerra necessaria, con il conflitto tradizionale per riportare la giustizia nel mondo.

FIGLI DI NONNO HEGEL

Fin troppi politici locali hanno recuperato l’adagio dei nonni, ovvero che “ci vuole una guerra”: del resto era stato il filosofo Georg Friedrich Hegel a dire loro che la guerra è necessaria, anzi auspicabile perché essa “è un antidoto contro l’infiacchimento dei popoli, rigenera lo spirito delle popolazioni come il movimento dei venti preserva il mare dalla putrefazione”. Secondo Hegel “una pace durevole o perpetua vi corroderebbe”. La filosofia della storia di Hegel è stata alla base della formazione europea dello stato nazione che ha sostituito le monarchie non costituzionali: propagandava la guerra come momento necessario dello “sviluppo dello Spirito”, inteso agli albori delle nostre istituzioni ottocentesche come il principio che guida l’evoluzione della coscienza umana. Per Hegel la guerra non è solo distruzione, ma anche rigenerazione, forza che impedisce l’inaridimento delle nazioni, mantenendole in quel dinamismo essenziale per il progresso: sull’attualizzazione delle tesi hegeliane si confrontarono anche i nostri Gentile e Croce, deviandone il pensiero in un neohegelismo italiano poco guerrafondaio.

Anche oggi l’Italia non vuole la guerra, però non sa come criticarla, ben conscia di essere anche uno tra i primi produttori di armi. Di fatto la guerra ha dei costi importanti per le singole nazioni coinvolte, economisti di professione (analisti internazionali specializzati nei costi di tali tragedie) pare abbiano già calcolato cosa dovranno pagare gli sconfitti o anche solo i “cobelligeranti morali”, come l’Italia per esempio. Il prezzo della guerra è da sempre in vite umane ed in patrimoni che cambiano possessori: e certamente ogni nazione europea tratterà tra Bruxelles, Francoforte (sede della Bce) e Londra (la City più precisamente) i diversi pesi economici da sostenere. Che è il prezzo da pagare per la libertà, la democrazia, la ricerca scientifica. Perché è fuori discussione che, da sempre, per la Germania la guerra rappresenti una fase del progresso tecnologico: una visione tipicamente ottocentesco-europea che vede nella guerra il momento che accelera l’innovazione scientifica e tecnologica, dalla medicina alla comunicazione. Del resto le scoperte fatte dalla Germania, ed ancora in voga nel mondo, sono nate durante i contesti bellici: i tedeschi avranno pure perso due guerre, ma il mondo di oggi è ancora caratterizzato dalla supremazia tecnologica idealizzata dalla Grande Prussia, di fatto il riflesso della dinamica hegeliana; la tensione tra Stati genera innovazione e cambiamento, ed è oggi alla base della visione finanziaria delle borse di New York e Londra, come delle dinamiche imposte dai poteri bancari a Bruxelles. E così Ursula von der Leyen parla di pace, certa che la corsa agli armamenti le permetterà di rimescolare le carte e finanziare la tecnologia germanocentrica. Immeditata la condivisione da parte del cancelliere tedesco Friedrich Merz, che ha detto “la Germania produrrà insieme all’Ucraina armi a lungo raggio”. Vladimir Putin parla chiaramente d’una Ue che cavalca il “fattore di escalation”.

È giunto il momento di domandarsi hegelianamente se i popoli europei siano stanchi, o non abituati, ad una pace perpetua, se siano come i loro nonni convinti possa portare ad una sorta di torpore morale, all’indebolimento dello spirito nazionale. Una domanda che potrebbe richiedere molteplici risposte: ma è innegabile che nel mondo attuale regni una perdita di un senso di appartenenza, perché il dominio della globalizzazione ha lenito e limato le differenze culturali, le genti si domandano per chi e cosa si debba fare la guerra. Ma le crisi internazionali a cui assistiamo sono lontane dalla visione europea (radicata soprattutto nei giovani) perché un italiano o un tedesco di oggi stentano a comprendere il sentimento nazionale che anima i conflitti. Per l’europeo di oggi la guerra è un videogioco, soprattutto conosce solo la competizione politica e quella nei tribunali, e poi le battaglie ideologiche sui diritti e le guerre economiche e finanziarie. Ma, armi nucleari a parte (perché non è detto vengano usate), la guerra oggi non potrebbe mai essere una “forza rigenerante hegeliana”, piuttosto la morte definitiva per povertà patrimoniale delle classi medie e medio-basse europee: perché, cari italiani, i presidenti del consiglio delle nazioni europee non ci dicono tutto, e certamente stanno trattando sulle percentuali in danaro con cui ogni Stato dovrà garantire lo sforzo bellico. E qui i cittadini, che parlano di guerra come di calcio al bar, è giusto sappiano che solo dopo saremo informati dell’entità di prelievo forzoso che subiremo sui conti corrente: la percentuale sarà ovviamente diversa da nazione a nazione, ed a seconda degli impegni presi dai governanti soprattutto per la ricostruzione. Così il conto corrente d’un italiano o d’un francese potrebbe essere dimezzato, mentre quello del tedesco prosciugato. Siamo in guerra, e si salva anche il più furbo che ha saputo occultare moneta contante e preziosi. Perché la guerra è di per sé disparitaria, e si combatte fuori e dentro una nazione. Ecco che sarebbe utile ripensare il coinvolgimento hegeliano nella guerra. Perché oggi sarebbe bello prevalesse la visione radicata nel popolo italiano, ovvero gestire i conflitti stemperandoli senza che si venga tutti distrutti economicamente e fisicamente (si muore anche di fame e stenti da povertà).

FURBI NIPOTI DI MACHIAVELLI

Ovviamente queste righe non vogliono assolutamente rivelarsi come consigli al potere, né si vorrebbe funestare con emicranie la politica che non ha certo testa per leggere di filosofia.

Ma è noto che gli strateghi Usa siano tanto specializzati nelle opere di Niccolò Machiavelli. Non sarà loro sfuggito che a reggere le sorti dell’Occidente oggi ci sia un moderno principe paragonabile a Cosimo de’ Medici, e un Papa che si è volutamente chiamato Leone come il pontefice Giovanni di Lorenzo de’ Medici, e ci sarebbe da continuare perché ci sono nuovamente tutti gli ingredienti che spinsero Machiavelli a scrivere “Dell’arte della guerra”. In primis perché oggi sarebbe oltremodo difficile ammantare i conflitti di un qualsivoglia beneficio per i popoli, poi perché si tratta nuovamente di scontri tra signori con alle spalle i potenti della terra. Ai tempi di Machiavelli il potere si condensava tutto in Europa, tra Firenze, Roma, la Spagna e Parigi. Oggi gli stessi spazi si sono dilatati. Parimenti ci sono correnti di pensiero che vorrebbero agganciare l’Europa ad un conflitto permanente. Questo lo ha notato anche Vladimir Putin, che sappiamo aver letto Machiavelli, che giustamente s’è chiesto se i popoli del Vecchio Continente vogliano davvero tutta questa distruzione. Perché quello che manca oggi, nonostante tutte le esperienze storiche, è una sorta di studio del “galateo” dell’arte diplomatica e militare: ovvero un confronto possibile in tempi passati, ma oggi negato anche dai democraticissimi media.

Chiamato a dire la sua al crepuscolo dell’esistenza, Niccolò Macchiavelli consigliava ai signori del suo tempo di non farsi coinvolgere dal mero interesse di coloro che fanno i mercenari di professione, e di ricordare come nell’antica Roma repubblicana non si permettesse mai che i cittadini diventassero soldati di professione: una volta terminato l’impegno bellico, a cui di volta in volta erano chiamati per necessità, tornavano felici alla  vita privata, ed “anche i più gloriosi desiderano tornarsi a casa e vivere dell’arte loro” (per dirla alla Machiavelli): lo scrittore e diplomatico non si limitava ad elencare gli eccessi di signori della guerra come Castruccio Castracani, ma anche i danni sociali ed economici che poteva cagionare a popoli e territori una conflittualità permanente, che di fatto arricchiva solo gli eserciti di ventura. Perché è questo che oggi torna a percepire il popolo, che la conflittualità planetaria serve solo a travasare ricchezze nelle mani dei signori della guerra, e che l’uomo comune non sente il dovere di partecipare (anche solo economicamente) ai conflitti di nuovi vecchi signori. E non si vorrebbe mai arrivare a malignare come Karl Marx nella missiva a Marie Louis Adolphe Thiers (primo presidente della Terza Repubblica Francese) in cui si chiariva che le guerre sarebbero sempre più state del potere contro il popolo.

Aggiornato il 12 luglio 2025 alle ore 11:47