
Dietro il rilancio dei centri storici si cela l’ennesima tentazione dirigista:
norme, piani e agevolazioni che escludono chi possiede, produce e investe.
Negli ultimi anni, la parola d’ordine è diventata “rigenerazione”. Dall’urbanistica alla fiscalità, dai centri storici ai quartieri periferici, ogni intervento pubblico si presenta come progetto di riqualificazione guidata e controllata dall’alto. Ma quando le soluzioni assumono la forma della pianificazione discrezionale, dei regolamenti comunali e dei benefici selettivi, non si è più dinanzi alla libertà di rivitalizzare uno spazio, bensì alla pretesa di amministrarlo secondo criteri stabiliti dal potere pubblico. È ciò che accade con la proposta di legge C.362, presentata alla Camera nel 2022 dal capogruppo della Lega Riccardo Molinari, ora all’esame della Commissione Attività produttive. Il testo, concepito per contrastare l’impoverimento dei centri storici e favorire il ritorno delle attività tradizionali, assegna ai Comuni la facoltà di delimitare aree “protette” da regolamentare e incentivare. Ma dietro questo obiettivo si profila l’ennesima estensione del controllo pubblico sullo spazio urbano e sui processi economici che lo attraversano.
L’impianto delineato nell’iniziativa parlamentare non libera energie sociali: al contrario, introduce un nuovo livello di autorizzazione pubblica, di gestione verticale e di decisione discrezionale. La rigenerazione si trasforma così in amministrazione, con i Comuni che, in assenza di criteri fissati a livello nazionale, potranno delimitare aree da tutelare, individuare soggetti da incentivare e stabilire quali attività si integrino meglio nel “carattere storico” della zona. La scelta, inevitabilmente, diventerà arbitraria.
A rendere il quadro ancora più squilibrato è il fatto che, oltre a ignorare del tutto i proprietari degli immobili — soggetti che investono, affittano, ristrutturano e conservano il patrimonio urbano — la proposta affida ai Comuni un potere di intervento estremamente ampio, privo di criteri generali fissati dalla legge. Ogni amministrazione potrà delimitare e gestire la propria “zona del commercio” secondo logiche soggettive, pressioni politiche o visioni estetiche. Il baricentro del progetto non è la collaborazione spontanea tra chi possiede e chi produce, bensì un disegno calato dall’alto, mediato da regolamenti locali e sostenuto da risorse pubbliche. Una visione che, ancora una volta, considera la proprietà come un ostacolo da aggirare e non come fondamento della rigenerazione.
Le misure previste, inoltre, puntano a incentivare solo alcune attività, a condizione che rientrino in determinati canoni culturali o tipologici. È il ritorno del commercio di Stato, mascherato da tutela del paesaggio urbano. L’idea stessa che si possa determinare con atto pubblico dove e cosa debba essere venduto, con quali caratteristiche e secondo quale “coerenza storica”, rivela una concezione paternalistica e pianificata dello spazio cittadino. La concorrenza lascia il posto alla selezione, l’iniziativa all’autorizzazione, la vitalità alla tutela vincolata.
Ebbene, la rigenerazione non si impone per legge. Rinasce quando si rimuovono gli ostacoli che l’hanno soffocata: imposizione fiscale eccessiva, burocrazia lenta, incertezza normativa, regolamenti contraddittori, vincoli architettonici asfissianti, ostilità culturale verso il profitto. Nessuna misura selettiva, nessun contributo pubblico potrà sostituire ciò che davvero serve: libertà di iniziativa, certezza della proprietà, apertura alla trasformazione.
Non servono zone privilegiate, occorrono invece spazi aperti. Né strumenti selettivi, bensì condizioni favorevoli a tutti. Il centro storico rinasce quando chi possiede un immobile può valorizzarlo, affittarlo, trasformarlo, senza dover chiedere permessi per qualsiasi modifica o vedersi costretto ad adeguarsi a canoni arbitrari. Rivive quando chi vuole avviare un’attività trova regole chiare, costi prevedibili e un’amministrazione che non ostacola, ma lascia fare.
È quanto, del resto, ha osservato con chiarezza Jane Jacobs, l’influente urbanista e scrittrice americana, autrice di numerose opere, che nel suo capolavoro Vita e morte delle grandi città ha messo in discussione l’urbanistica autoritaria del Novecento, mostrando come la vitalità urbana non nasca dai piani regolatori ma dalle interazioni quotidiane tra gli abitanti. “Le città hanno la capacità di fornire qualcosa per tutti, solo perché, e solo quando, sono create da tutti”, ha infatti scritto. Per lei la città non è una macchina da progettare, è un ecosistema vivente, complesso e spontaneo, dove la sicurezza è garantita dagli “occhi sulla strada”, dove il commercio fiorisce nei quartieri animati dalla varietà e dalla libertà, e dove la cooperazione volontaria genera ordine senza bisogno di comandi dall’alto. È la logica della complessità organizzata, non della semplificazione centralizzata.
L’economia urbana vive di equilibrio dinamico, di relazioni volontarie, di investimenti diffusi. Pensare che tutto ciò possa essere progettato in sede comunale equivale a non comprenderne la natura. L’ordine urbano non si impone: emerge. Le città che resistono sono quelle dove le persone sono libere di agire, non quelle in cui tutto è soggetto a controllo. La vitalità commerciale è una conseguenza della libertà, non della pianificazione.
In questo senso, il contenuto dell’intervento legislativo C.362 non va semplicemente migliorato: va profondamente ripensato. Non perché manchi l’intento positivo, ma perché sbaglia il metodo. Sostituisce la cooperazione tra privati con la selezione pubblica, l’autonomia della proprietà con l’intermediazione politica, l’adattamento spontaneo con il disegno istituzionale. È l’ennesima illusione riformista: la convinzione che, con un buon progetto normativo e una mappa ben fatta, si possa orientare il comportamento delle persone senza lasciarle libere di scegliere.
La vera rigenerazione non richiede zone speciali. Significa rimuovere le barriere che impediscono agli attori del territorio di agire, restituire al diritto la funzione di garantire la libertà e non di condizionarla, riportare l’amministrazione al suo ruolo minimo: assicurare le regole di base, tutelare la proprietà, garantire l’ordine e risolvere i conflitti.
In definitiva, i centri storici torneranno vivi non quando lo stabilirà un regolamento comunale, ma quando i cittadini potranno agire con fiducia, investire senza timore, abitare e lavorare senza essere considerati sospetti. Percorrere altre strade conduce inevitabilmente all’ennesima illusione urbanistica. La libertà — e non il favore pubblico — è la vera condizione della rigenerazione. Dove questa viene meno, anche le città si spengono.
Aggiornato il 11 luglio 2025 alle ore 09:48