
Non sono pregiudizialmente contrario a investimenti nel comparto militare in quanto le evidenze storiche certificano che le risorse pubbliche se ben impiegate possono diventare motore di sviluppo economico e di innovazione tecnologica. È un esempio Internet, che è stato realizzato dal Dipartimento di Difesa degli Stati Uniti e che è diventato il volano di sviluppo in tutti i settori economici. La logistica, studiata per esigenze militari, è stata anch’essa proficuamente utilizzata, con grande successo, dalle imprese per la ottimizzazione della gestione delle scorte di materie prime, semilavorati e prodotti finiti, sia nei settori industriali che in quelli commerciali. Tuttavia, ritengo una cattiva notizia per l’Italia il fatto che la Nato abbia comunicato che “gli alleati, compreso l’Italia, si sono impegnati ad “investire” fino il 5 per cento” del Pil in spese militari entro il 2035. Gli “investimenti”, (sono spese o investimenti? La differenza è sostanziale!) per una nazione ancora troppo indebitata come l’Italia, devono essere fatti Cum grano salis e comunque senza creare le condizioni di ulteriore indebitamento pubblico. Gli investimenti nel senso più ampio del termine devono prevedere la pianificazione economica e finanziaria ovvero: quanto investire, in che tempi, per quale ragione, come reperire i mezzi finanziari, quale incidenza avrà sul conto economico e quali ricadute avrà nell’aspetto finanziario.
Per le imprese, in senso stretto, quali ritorni economici avrà l’investimento che dovrà essere in grado di generare ricavi funzionali a rimborsare i finanziamenti ottenuti per l’acquisizione dei beni strumentali. Vanificare lo sforzo fatto, dal Governo di centrodestra, per risanare le finanze pubbliche dell’Italia per sottostare al diktat di incrementare le spese militari al 5 percento del Pil da parte del segretario generale della Nato Mark Rutte è una follia che non ci possiamo permettere! È bastata la comunicazione sui media che l’Alleanza Atlantica aveva trovato l’accordo sulle “spese militari” dei Paesi aderenti alla Nato, per far risalire di qualche decimo di punto lo spread, che ad inizio della mattinata si era ridotto a 93 punti base. Il paradosso è che l’ex primo ministro dei Paesi Bassi era uno tra i più feroci assertori dei vincoli di bilancio dei Paesi che avevano sottoscritto il Trattato di Maastricht. Da premier, Mark Rutte, era capofila dei Governi dei cosiddetti Paesi frugali (Austria, Danimarca, Paesi Bassi e Svezia) che erano sostenuti dai falchi del Governo tedesco in materia di contenimento della spesa pubblica. Erano i censori, spietati, di quelli che venivano definiti i Pigs (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) ovvero nazioni che erano considerate restie alla disciplina di bilancio. Disattendere lo “stupido” parametro deficit-Pil del 3 per cento significava esporsi alla procedura, dell’Unione europea, per deficit eccessivo. Improvvisamente, per il segretario generale della Nato, tutto è cambiato in tema di rigore sulla gestione delle finanze pubbliche. Assumere degli “impegni” formali così impegnativi, anche se edulcorati da non meglio precisate modalità di calcolo, è comunque controproducente per un Paese che deve onorare, ne va della credibilità, i propri impegni nei consessi internazionali. Sottoscrivere un impegno finanziario così gravoso per le casse dello Stato anche se diluito nel tempo, comporterà dei sacrifici per gli italiani “elettori” che non sono disponibili a spese anche se considerate “sostenibili”.
Già il contribuente italiano è sottoposto a una aberrante pressione fiscale. Infatti, il reddito disponibile, dopo il gravoso prelievo fiscale, riduce la capacità di spesa del contribuente. L’eccessiva imposizione fiscale sulla ricchezza prodotta, toglie alle imprese la linfa vitale per gli investimenti in innovazione e sviluppo e per le famiglie la capacità di consumo, anche di beni durevoli, con effetti negativi sulla produzione e in conseguenza sul Pil. Torna utile ricordare a chi sta al Governo, pro tempore, che uno dei punti fondamentali del programma della coalizione di centrodestra era la riduzione del carico fiscale. La storia economica ci insegna che maggiore è il reddito disponibile per chi lo produce, maggiori saranno gli investimenti e i consumi con effetti positivi sulla crescita della ricchezza nazionale. Aumentare le spese militari applicando il solito “stupido” parametro, oggi determinato nel 5 per cento del Pil, imposto senza un effettivo criterio di ottimizzazione della spesa funzionale all’obiettivo programmato; significa reperire risorse per le casse dello Stato riducendo la spesa improduttiva (non sarebbe male) oppure ridurre lo stato assistenziale (più complicato elettoralmente) o aumentando le entrate tributarie togliendo ulteriormente reddito disponibile ai contribuenti con effetti recessivi sull’economia. Convincere i contribuenti italiani che l’aumento delle spese militari è indispensabile a causa del presunto rischio che la Federazione russa invada l’Europa è a mio modesto avviso velleitario. L’accettazione, supina, di aumentare le spese militari comporta la certezza assoluta di costi politici, economici e sociali compreso il fatto che le scapigliate opposizioni la utilizzeranno contro il Governo.
Aggiornato il 26 giugno 2025 alle ore 09:56