Marcello Veneziani e la militarizzazione del pensiero

Marcello Veneziani, noto intellettuale e giornalista italiano, il 20 giugno 2025 su La Verità ha scritto un articolo dal titolo autoesplicativo “La rassicurante irrilevanza dell’Italia” nel quale descrive la nostra patria così “l’Italia, grazie a Dio, conta poco o nulla. Non siamo in guerra, non siamo mediatori, non siamo partner di particolare peso e rilievo. Nessuno si aspetta le nostre decisioni, i nostri pronunciamenti, siamo parte di un mondo a sua volta poco rilevante, comunque marginale, che si chiama Unione Europea. Non abbiamo bombe atomiche né sontuosi apparati militari, non abbiamo strumenti di dissuasione, se non logorroici politicanti e imbonitori… e che il nostro unico, debole ombrello atomico si chiama Papa. In questo momento è l’unico americano che ci protegge davvero, almeno in cielo”.

Subito dopo avere postato sulla sua pagine queste legittime, quanto condivisibili affermazioni, è stato fatto oggetto di diversi commenti acrimoniosi nei quali viene accusato di essere cambiato, di non essere più quel pensatore che alla destra ha dato tanto e di essere un quasi “traditore” solo per avere espresso le sue critiche verso l’Occidente, l’Unione Europea, il governo Italiano, l’intero asse costituzionale italiano e Giorgia Meloni alla quale l’opposizione attribuisce, scrive Veneziani, “un’importanza strategica internazionale che obiettivamente non ha e non per colpa sua”. Come dargli torto.

E così Veneziani sulla sua pagina Facebook è stato costretto a fare una coraggiosa precisazione tanto da scrivere a chiare lettere “chi chiede se io sia cambiato, si chieda pure se è questa l’Italia, e la destra, nella quale si riconosce. E poi si chieda se compito di un pensatore libero sia quello di seguire la linea politica di qualcuno o di esprimere in libertà la sua passione di verità, anche quando diverge da ciò che si vorrebbe. Nessuno ha chiesto soldi o altro per visitarle, se non vi piacciono al punto da perdere un minimo di garbo, di civiltà e di contegno, cambiate pagina, andate altrove, scaricate i vostri umori negli appositi canali di spurgo o andate in curva sud a fare tifo da stadio. Qui si legge, si scrive, si pensa, ma non si vomita. E non si è al servizio di nessuno”.

Su questo non avevamo dubbi perché Marcello Veneziani è sempre stato un pensatore libero e un uomo coraggioso: è voluto persino stare fuori da ogni nomina governativa, anche quando sarebbe potuto stare accucciato al calduccio della fiamma tricolore, come in tanti altri in questi anni hanno fatto. Ma “unicuique suum”.

Purtroppo caro Veneziani, in tempo di guerra, il linguaggio cessa di essere un semplice strumento di comunicazione e si trasforma in un’arma strategica, per plasmare l’opinione pubblica e le sue percezioni, ma soprattutto per giustificare azioni ed interventi politici, economici e militari.

Le parole diventano strumenti per consolidare il consenso e soffocare il dissenso, come Noam Chomsky afferma in La fabbrica del consenso. Ovvero la politica dei mass media, “la propaganda è per la democrazia ciò che il manganello è per lo stato totalitario”.

Parallelamente, la società si militarizza: non solo attraverso la mobilitazione di eserciti e risorse, ma anche nel modo di pensare tanto da abbracciare la logica binaria di “noi contro di loro”.

Chi osa adottare un approccio critico, mettendo in discussione le narrazioni ufficiali o le scelte strategiche, rischia di essere bollato come “traditore” o come uno che è cambiato o forse è impazzito. L’accusa di tradimento diventa uno strumento per silenziare le voci dissonanti, trasformando il dibattito in un campo di battaglia in cui i leoni da tastiera si scatenano perché durante un assalto alla collina anche il linguaggio si deve piegare alle esigenze della guerra.

La propaganda gioca un ruolo cruciale in questa trasformazione. I media adottano un vocabolario che amplifica il senso di urgenza e minaccia. Frasi come “stato di emergenza”, “lotta per la sopravvivenza” o “lotta per la libertà” dominano il discorso pubblico, spingendo la società a interiorizzare la necessità del conflitto. Parole neutre o ambigue, come “dialogo” o “negoziato”, diventano sospette e vengono associate a debolezza o a compromesso. Persino il linguaggio quotidiano si militarizza: espressioni come “fronte interno”, “mobilitazione civile” o “resistenza” permeano le conversazioni, trasformando ogni persona o meglio ogni followers in un potenziale soldato della causa “giusta” e “sacrosanta”.

Questa militarizzazione del linguaggio non è casuale, serve a consolidare il consenso e a ridurre lo spazio per il dubbio. Le parole, in questo contesto, non descrivono la realtà: la creano e così come scriveva George Orwell in 1984 “la guerra è pace. La libertà è schiavitù. L’ignoranza è forza”.

Herbert Spencer, filosofo e sociologo del XIX secolo, analizzò bene questo fenomeno, con la sua distinzione tra società “militari” e “industriali”, ci aiuta pertanto a comprendere come il conflitto spinga le società verso strutture autoritarie, in cui il linguaggio e il controllo sociale si piegano alle esigenze del conflitto. In Principi di Sociologia, ci dice che “nelle società militari, la subordinazione degli individui al potere centrale richiede un linguaggio che esalti l’unità e sopprima l’individualità” e le parole sono funzionali a questo obiettivo supremo.

Durante la Prima guerra mondiale, infatti, termini come “trincea” e “sacrificio supremo” glorificavano la morte in battaglia, mentre il pacifismo veniva dipinto come codardia. Durante la Guerra Fredda, l’uso di espressioni come “cortina di ferro” o “asse del male” contribuì a demonizzare l’avversario, rendendo impensabile qualsiasi forma di dialogo.

Anche nei conflitti moderni, come quelli in Medio Oriente o in Ucraina, il linguaggio si è polarizzato mortificando ogni complessità geopolitica in una narrazione binaria o “noi e la nostra democrazia” o “loro e le loro dittature”.

E così inconsapevoli quanto frustrati frequentatori di piattaforme social diventano i nuovi guardiani della “purezza”, pronti a mettere all’indice chi devia dalla linea a cui personalmente aderiscono con devozione religiosa, mentre chi esprime dissenso rischia l’ostracismo digitale o accuse di “intelligenza con il nemico”.

Ogni aspetto della vita si deve piegare alle esigenze del combattimento ed in questo contesto, il pensiero critico, come quello di Marcello Veneziani, diventa un atto di resistenza, ma anche un rischio ed il dissenso viene percepito come una minaccia perché la libertà di espressione è sacrificata sull'altare dell’etica dell’obbedienza.

Chi mette in discussione certi dogmi o convincimenti si espone a un’accusa tanto antica quanto potente: il tradimento.

Questo termine, gravido di un significato quasi sacrale se pensiamo a quello di Giuda, non si limita a indicare chi collabora attivamente col nemico, ma si estende a chiunque esprima perplessità o proponga alternative ed il “traditore” diventa il capro espiatorio, colui che mina l’unità nazionale in un momento di crisi.

La tensione poi fa collassare l’identità collettiva in uno stato definito, sopprimendo la pluralità intrinseca delle identità individuali. In questo contesto, le narrazioni belliche, veicolate da slogan, artifici retorici e social media, funzionano come un campo quantistico che allinea le identità individuali a quella comune. Questo accadimento, pur discutibile e spesso strumentalizzato, può talvolta essere percepito anche come una necessità dettata da momenti di grave crisi, e nessuno nega che, in certe circostanze, tale spinta alla coesione possa avere un suo fondamento.

In questa logica il dissenso è solo una perturbazione nel sistema identitario collettivo, “un’interferenza” che mette in crisi lo stato collassato dell’identità di gruppo.

Chi critica la logica della battaglia come aveva fatto Veneziani in un articolo del 18 giugno “La guerra in video ci rende peggiori” non solo sfida la narrazione ufficiale, ma introduce un’“incertezza quantistica” che minaccia la coesione sociale. Questo spiega l’intensità delle accuse di tradimento: il critico non è solo un oppositore politico, ma un elemento che destabilizza l’intera comunità.

Storicamente, le accuse di tradimento hanno accompagnato ogni grande conflitto. Durante la Prima guerra mondiale, il filosofo britannico Bertrand Russell fu imprigionato per le sue posizioni pacifiste, nella Russia sovietica, durante il secondo conflitto mondiale, chiunque sollevava dubbi sulla strategia militare del compagno Stalin finiva nei gulag nel migliore dei casi o fucilato nel peggiore. Negli Stati Uniti, durante il maccartismo, l’accusa di “comunismo” distrusse carriere e vite. Anche nei conflitti recenti, come quello in Iraq o quello in Ucraina, chi ha messo in discussione le versioni ufficiali è stato spesso etichettato come “filo-putinista” o con altri dispregiativi.

D’altronde l’accusa di tradimento è efficace proprio perché sfrutta il clima emotivo della lotta. In un contesto di paura e incertezza, il bisogno di coesione prevale sulla razionalità.

La critica, anche se costruttiva, viene percepita come un atto di slealtà, un pugnalamento alle spalle non solo dello stato, ma della comunità, dei soldati, persino dei caduti delle guerre passate, e sui social media le accuse di tradimento si trasformano in linciaggi digitali. Un tweet critico può scatenare una tempesta di insulti, minacce e campagne spingendo molti a scegliere l’autocensura per evitare conseguenze.

Eppure, il pensiero critico è un atto di responsabilità. Mettere in discussione la guerra non significa negare la necessità di difesa o il valore di chi combatte, ma chiedere conto delle scelte strategiche, dei costi umani, delle alternative possibili. La critica, in un contesto militarizzato, è un atto di coraggio: richiede di sfidare la pressione sociale, il conformismo e il rischio di ostracismo. È un invito a non accettare ciecamente tutto ma a valutare le conseguenze delle azioni collettive.

Preservare uno spazio per il dialogo, il dubbio e la complessità è essenziale per evitare che il confronto diventi non solo un conflitto fisico, ma anche una prigione mentale. Cosa che è successa a Giorgia Meloni, la quale si è costruita la gabbia surreale del “fare ponte tra Europa e Stati Uniti” da cui non potrà uscire senza farsi male, molto male. È come se a suo tempo Massinissa, re di Numidia, avesse detto in giro per l’Africa che avrebbe fatto da “trait d'union” tra Roma e Cartagine, tra Publio Cornelio Scipione Africano e Annibale Barca.

Il dissenso, peraltro, introducendo “incertezza” nel sistema, permette la coesistenza di stati identitari multipli, favorendo una società aperta e dinamica.

Preservare l’indeterminazione sociale significa pertanto riconoscere che nessuna narrazione è assoluta. Le diversità di prospettive sono una risorsa, non una minaccia, esse stimolano adattamento e resilienza. Peraltro le alternative non scompaiono: rimangono latenti, pronte a riemergere.

Allora lasciate libero Marcello Veneziani di scrivere quello che pensa. Con tutta probabilità i suoi sagaci quanto urticanti articoli non fermeranno guerre, non faranno cambiare linea al governo italiano (ammesso che si possa individuare una sua strategica chiara), non rafforzeranno il ruolo di un'Unione Europea oggi politicamente debole, non bloccheranno i B2, gli F35, i missili ipersonici dell’Iran e i droni della Russia, non arresteranno il massacro a Gaza o in Ucraina ma almeno ci continueranno a dare la speranza di potere ancora credere nel libero pensiero come “logos” razionale, quella capacità di armonizzare gli opposti in una realtà complessa, caotica e contraddittoria che tocca proprio ai filosofi ridurre ad ordine. Ma siamo disposti a difendere la libertà di pensiero, anche quando le opinioni espresse ci disturbano o mettono in discussione le nostre certezze? E se oggi non siamo disposti a difendere chi dissente, domani avremo più lo spazio per dissentire noi?

Aggiornato il 25 giugno 2025 alle ore 09:11