
La verità è che ancora siamo qui nel tentativo, al momento vano, di elaborare quel maledetto lutto. Perché ogni volta che presenzio a una kermesse forzista, tutte le volte che mi pongo alla visione di un programma Mediaset, magari uno di quei talk show dell’anima anarcoide o le prime serate dai toni parossistici, nei colori delle scenografie come nella bellezza delle sciantose di turno, e ancora, quando mi capita di vedere una partita dove si gioca davvero a calcio, vuoi per i piedi talentuosi vuoi per un sistema di gioco funzionale e divertente, ebbene, ogniqualvolta che mi capita di approcciare a quanto scritto poc’anzi, mi sovviene il ricordo delle mie gite al Vittoriale. Con quella sensazione di veder sbucare, prima o poi, il Vate tra gli spalti del Parlaggio o tra i viottoli che conducono alla Nave Puglia. Perché il Cav era diventato talmente presente nel fluire del nostro tempo, tanto da aver permeato i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre opere, finanche quelle omissioni messe lì a tappare le falle del nostro liberalismo quotidiano. Pare strano, se non proprio assurdo, scrivere di Lui con toni nostalgici fingendo di non ricordare la carica vitalistica e quindi, va da sé, futurista che Silvio Berlusconi ha incarnato senza soluzione di continuità durante tutto il suo arco esistenziale.
Fra l’altro, a differenza di taluni imprenditori à la page che giocano a fare i filosofi, peraltro con esiti stucchevoli se non proprio macchiettistici, checché se ne dica, il Cav non solo amava sinceramente un pensatore tra i più stimati nella storia del pensiero umano – parlo di Erasmo da Rotterdam – non solo si prodigò nel dar luogo a una tiratura di copie del suo capolavoro – Elogio della follia (Moriae encomium) – ma riuscì a compiere un passo ulteriore: diede corpo a quelle idee, si sporcò le mani con quella pazzia lucidissima e in questo tentativo di ingabbiare l’assoluto ne abbiamo guadagnato tutti: di certo lo scrivente, probabilmente molti di voi che sono arrivati a leggere sin qui. Ecco perché spesso appariva una forma ossimorica quel sentire la parola “moderato” in bocca a chi amava coltivare l’irrazionale, dispensando genialità senza alcuna parsimonia negli ambiti più disparati. In politica, almeno in quella italiana, c’è stato un prima e un dopo, un avanti Cristo e dopo Cristo (avanti Cav e dopo Cav). Non che il liberalismo fosse nato con Lui, figuriamoci, ma fu con Lui che assunse sembianze comprensibili, a portata di tutti, depurate dei suoi caratteri elitari. Insomma, con una grammatica semplice (ma non semplicistica), quel brianzolo ha detto Urbi et Orbi che in fondo la visione individualista ama accarezzare l’essenziale poiché – parafrasando Sant’Agostino – prima pone al centro l’uomo, dopodiché ti permette di agire come meglio credi.
Nella piena contezza che il liberale è colui che ogni giorno tenta di spingere sempre più in là, fosse anche di poco, quel perimetro che circoscrive la nostra indipendenza. Di qui quei semplici ma pregiati ingredienti, quali la libertà dell’individuo, la responsabilità del singolo, lo spontaneismo umano, il mercato aperto, l’abiura del Leviatano. Più individuo e meno Stato. Più libertà e meno tasse. Più federalismo e meno centralismo parassitario. Più competizione e meno assistenzialismo. È in questa cantilena di dicotomie che si staglia il vero lascito del Cav. Lui che seppe mantecare un liberalismo classico con il riformismo laico e il popolarismo sturziano, dando vita a un fusionismo intellettuale e pragmatico foriero di tante belle speranze, non tutte purtroppo condotte a buon fine. E noi siamo ancora qui a tentare di far rivivere lo spirito del 1994 mentre il suo spirito è soffiato via 24 mesi fa. Come fosse un’aporia apparentemente condannata ad una risposta insoluta.
Aggiornato il 12 giugno 2025 alle ore 10:01