Referendum: un esito ampiamente prevedibile

Alla fine, qualcosa rimarrà anche di questo referendum, al di là di un esito ampiamente prevedibile, soprattutto per chi ha saputo soppesare con maestria il buon senso con il senso comune. Al netto del quesito legato alla cittadinanza italiana, meritevole di un capitolo a parte, era illogico pensare di poter affrontare un tema assai complesso come quello legato al mondo del lavoro mediante lo strumento referendario, la cui riuscita, peraltro, non avrebbe portato alla costruzione di un quadro normativo sempre più adeguato ai tempi che corrono, bensì al ritorno di una stagione ormai anacronistica, anch’essa figlia di una sindrome che il sociologo Zygmunt Bauman avrebbe descritto con la parola “retropia”, ovvero la tendenza a idealizzare un passato mitico – una sorta di arcadia giuslavorista, verrebbe da dire – nel quale il posto fisso è garantito vita natural durante e l’occupazione segue una logica a volte slegata dalle dinamiche della domanda e dell’offerta. Tutt’al più, a un decennio di distanza dall’approvazione del “Jobs Act”, magari si potrebbero pensare delle migliorie alla normativa in vigore, rafforzando il principio della flex-security, in virtù della quale si pone una netta linea di demarcazione tra il concetto di precarietà e quello legato alla flessibilità. Ciò detto, vi è un principio che ancora non ha permeato in toto la società italiana – figuriamoci la classe politica: il lavoro non si crea in virtù di un testo di legge, per quanto ben congegnato.

Di più: una buona legislazione è quella che minimizza i danni dell’intervento statuale all’interno di un mercato libero. Può facilitare alcuni meccanismi, può creare tutele a fronte di criticità espresse, ma deve sempre adattarsi alle forme di interazione tra singoli modellate da fenomeni geopolitici, gusti mutevoli dei consumatori, tecnologie che esordiscono nei processi decisionali e chissà da quanti altri fattori che al momento sono ignoti. Non si può debellare la realtà con un tratto di penna per tratteggiare un mondo a nostro uso e consumo. Per giunta, in un momento storico dove – al netto di problemi evidenti – abbiamo un’occupazione che cresce, un numero di contratti a tempo indeterminato in sensibile aumento e, fortunatamente, un numero di morti sul lavoro in netto calo rispetto ai decenni addietro. Sì, è vero: la questione salariale è assai rilevante. Ma di certo non sarebbe stato questo referendum a metterci le mani. Ergo, l’argomento merita ben altro trattamento, oltre che una pluralità di ipotesi risolutive. In sintesi, quanto scritto fin qui riguarda l’aspetto visibile collegato con il fallimentare appuntamento referendario. Visibile ma, per una fetta cospicua dei promotori, non rilevante, a tratti finanche esornativo del tutto. D’altronde, come ebbe a dire su altri temi (non troppo distanti, per la verità, da quelli fin qui trattati), Frédéric Bastiat: oltre all’evidenza vi è una realtà sottesa, non meno importante rispetto alla prima. La faccio breve. Quelle cinque schede sono state una cartina di tornasole della sinistra odierna, in cui il massimalismo sta pian piano egemonizzando qualunque residuo riformista ancora presente a certe latitudini di pensiero progressista.

È sintomatico come la sinistra italiana – almeno la sua componente più cospicua – sembri volgersi al passato per trovare una ragion d’essere. Non si tratta nemmeno, quindi, di una strategia politica, bensì di una necessità identitaria. Per carità, non si pretendeva che il Pd e il M5s assumessero le sembianze di un “newlaburismo” in salsa italica, ma nemmeno che si facessero condizionare e dettare l’agenda da una Cgil sostenuta più da pensionati che dai lavoratori tout court. Un sindacato al cui interno, tra le altre cose, non poche volte è stata adoperata quella stessa contrattualistica del lavoro abiurata nelle piazze ad ogni piè sospinto. Non vi è settore della società dove le varie anime democrat – escluse pochissime, oltre che silenti, eccezioni – non votino i loro sguardi all’indietro, sperando di recuperare una verginità ideologica quale propellente per la progettualità futura. Questo “modus operandi” ricorda un po’ il mito di Orfeo e Euridice, con il primo che volle salvare la seconda dagli inferi ma, non riuscendo a trattenere il desiderio, condannò entrambi all’infelicità eterna dovuta alla dissolvenza e al vuoto emotivo dettato dall’abbandono fisico. Sia chiaro: chiunque – anche i partiti, anche i movimenti di popolo – ha il diritto di coltivare una propria elegia fatta di pantheon intellettuali, di una grammatica evocativa, oltre che di luoghi simbolici capaci di confezionare una dimensione comunitaria. Ma se poi non si capisce che sopra le fondamenta si deve costruire il resto dell’edificio, si rimarrà sempre in balia delle condizioni avverse dovute all’assenza di strumenti idonei per comprendere (prima) e per deliberare (poi) percorsi rivolti verso nuovi orizzonti, allora il fallimento sarà una costante temporale. Lo disse Luigi Einaudi, ma vale anche per coloro che hanno poca dimestichezza con il pensiero liberale.

Aggiornato il 10 giugno 2025 alle ore 10:21