
Il nuovo rapporto dell’Autorità anticorruzione invoca più regole e controlli, ma dimentica che è proprio l’eccesso di potere pubblico a generare il terreno fertile per il malaffare.
Ogni anno si promettono nuove strategie, strumenti innovativi e obblighi etici. E ogni anno si scopre che la corruzione è ancora lì, diffusa, resiliente, adattata. La Relazione annuale 2025 dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), presentata il 20 maggio al Parlamento, conferma il quadro: in Italia sono aumentate le segnalazioni di illeciti, è peggiorata la percezione internazionale dell’integrità amministrativa, e si sono ulteriormente complicate le regole sugli incarichi e sui conflitti d’interesse. Ma nessuno sembra domandarsi quale sia l’origine profonda del fenomeno. Una risposta, scomoda ma limpida, l’aveva già fornita Ludwig von Mises sottolineando che “la corruzione è un fenomeno concomitante e inevitabile dell’interventismo statale”. Il che equivale a sostenere che, quando il potere pubblico può concedere privilegi, deroghe, incarichi o autorizzazioni, le pressioni diventano strutturali. Non siamo davanti a semplici deviazioni individuali, ma a effetti sistemici di un modello economico-politico in cui la discrezionalità è norma.
Nella presentazione del rapporto, il presidente dell’Autorità ha citato Papa Francesco, che aveva scritto “se per il peccato c’è redenzione, per la corruzione no” e parlato di una “malattia” il cui “contagio si estende dai singoli alla società intera”, da combattere con cultura, legalità e vigilanza. Ebbene, è proprio l’ambiente ipertrofico e sovraccarico di norme, tipico della macchina statale italiana, a nutrire quell’ecosistema patologico. Quando ogni atto amministrativo si trasforma in un passaggio opaco, e ogni impresa dipende da autorizzazioni multiple e tempi indefiniti, si generano inevitabilmente incentivi a cercare scorciatoie. Come del resto aveva previsto, con estrema lucidità, il citato scienziato sociale austriaco, che aveva pure avvertito che in un’economia di mercato libera, gli imprenditori competono soddisfacendo i consumatori, senza necessità di influenzare i funzionari pubblici. Al contrario, in un sistema interventista, dove il successo dipende dalle decisioni statali, la corruzione diventa un mezzo razionale per ottenere vantaggi. Del resto, chi vive di mercato deve soddisfare i consumatori; chi dipende dalla politica cerca appoggi, protezioni e rendite di posizione.
Il dossier dell’ente anticorruzione denuncia anche con forza il crescente fenomeno del pantouflage, l’indebolimento delle barriere ai conflitti d’interesse e la persistente assenza di una disciplina organica in materia di lobbying. Ciò che però emerge è una diagnosi senza cura. La terapia proposta resta infatti sempre quella: nuove regole, nuove piattaforme, nuovi obblighi formali. Si confonde l’accumulo normativo con la legalità sostanziale. Eppure, come il documento stesso ammette, nel 2024, l’Anac ha ricevuto un numero significativo di segnalazioni, di cui una parte rilevante è stata ritenuta fondata. Un dato che, più che confortare, dovrebbe inquietare. Chi conosce il pensiero del citato grande esponente della Scuola Austriaca di Economia non si stupisce: “Poiché a poco a poco si abituano a violare le leggi penali e le norme morali, finiscono per perdere interamente la facoltà di distinguere tra il giusto e l’ingiusto, tra il bene e il male. Se non si può produrre o vendere una merce senza infrangere questo o quel regolamento, si finisce per pensare che in fondo peccare contro la legge e la morale faccia purtroppo parte della vita”. È questo il risultato più pericoloso dell’interventismo: non solo paralizza l’economia, ma corrode la coscienza civile. Quando l’arbitrio diventa regola e la legalità un intralcio, il rispetto delle norme smette di essere un valore e diventa un ostacolo da aggirare.
Proprio mentre si denuncia siffatta degenerazione, la relazione dell’Autorità dedica ampio spazio al coinvolgimento dell’Italia nelle reti sovranazionali contro la corruzione, come il Greco del Consiglio d’Europa, la Neiwa, la Ncpa e il gruppo sul Rule of Law della Commissione europea. Si tratta di un’attività diplomatica e tecnica certamente rilevante, ma che rischia di rimanere puramente formale se non si affrontano i nodi strutturali interni. Partecipare ai consessi multilaterali può consolidare buone prassi, ma non elimina il cuore del problema: finché si continuerà a credere che la trasparenza derivi da un cumulo crescente di norme e controlli, si alimenterà l’apparato che consente alla corruzione di prosperare. La soluzione, invece, passa per una drastica riduzione dello spazio discrezionale affidato alle amministrazioni pubbliche.
A tutto ciò si aggiunge un paradosso evidente. Il documento stesso rileva come molte delle riforme più recenti abbiano indebolito le garanzie esistenti. Il decreto sulla pubblica amministrazione ha ridotto da tre a un anno il periodo di incompatibilità tra incarichi pubblici e privati, mentre l’abrogazione dell’articolo 7 del disegno legislativo 39 del 2013 ha lasciato sguarnita la dimensione locale, proprio quella più vulnerabile. Così, mentre si reclamano nuovi interventi legislativi, si continua a intervenire in modo disordinato e contraddittorio. Un cortocircuito normativo che potrà essere spezzato solo abbandonando la logica della proliferazione regolativa e abbracciando quella della limitazione del potere. Serve il coraggio di riconoscere che meno Stato significa meno corruzione. Non meno giustizia, ma meno potere discrezionale. È la dispersione del potere, non la sua concentrazione, a garantire integrità. “Il mercato – scrive ancora Mises – è una democrazia in cui ogni penny è un voto”. In un’economia libera, ogni attore risponde al giudizio dei consumatori, non al permesso di un funzionario.
La lezione che proviene dal sistema di principi del liberalismo non invoca un’etica pubblica astratta, ma l’eliminazione delle occasioni di favore. Non bastano codici, piani triennali o piattaforme digitali. È solo in un sistema dove nessuno detiene il potere di premiare o punire in modo arbitrario che l’onestà può affermarsi come regola, non come eccezione. In un contesto del genere, la corruzione, privata della sua ragion d’essere, finisce per estinguersi, come accade a ogni pratica che non trova più convenienza né spazio per prosperare.
Aggiornato il 21 maggio 2025 alle ore 10:05