L’occupazione non si crea a tavolino

Cinque miliardi di incentivi non bastano a sostituire la libertà economica: il lavoro nasce dove lo Stato si ritira, non dove interviene.

“Abbiamo voluto festeggiare con i fatti”, ha dichiarato Giorgia Meloni nel suo messaggio per il 1° maggio, presentando l’ennesimo “pacchetto lavoro” da oltre 5 miliardi di euro. Contributi azzerati per due anni alle aziende che assumono giovani sotto i 35 anni, incentivi alle lavoratrici, attenzione al Mezzogiorno. È la rituale sceneggiatura di ogni Festa dei Lavoratori: lo Stato si presenta come datore di lavoro indiretto, elargitore, gestore, controllore. Ma quello che manca, puntualmente, è la libertà.

Politici, sindacati e una parte significativa dell’opinione pubblica continuano a illudersi che il lavoro si possa creare con l’ingegneria normativa, come se l’occupazione fosse un prodotto amministrativo. Ma il lavoro non è una merce da distribuire, è un processo che nasce spontaneamente in una società libera, grazie all’iniziativa individuale, alla cooperazione volontaria, alla capacità di assumersi rischi e di investire nel tempo e nel capitale umano. Laddove si tenta di sostituire la libera scelta con l’intervento dirigista, il risultato non è occupazione, ma dipendenza, inefficienza e spreco. Lo aveva intuito lucidamente Friedrich A. von Hayek, scrivendo che “la fede diffusa nella giustizia sociale è probabilmente al giorno d’oggi la minaccia più grande nei confronti della maggior parte degli altri valori di una civiltà libera”.

Cinque miliardi di euro non servono a nulla se non si ha il coraggio di fare la cosa più semplice e insieme più difficile: togliersi di mezzo. Il potere pubblico dovrebbe ridurre le imposte sul lavoro, rendere flessibili i contratti, eliminare le barriere all’ingresso nel mercato, aprire i mestieri, cancellare sussidi e distorsioni che favoriscono pochi e scoraggiano molti. Ma tutto questo implica rinunciare al potere di decidere chi premiare, chi salvare, chi proteggere. E proprio questo, in Italia, appare inaccettabile per una classe dirigente che trae forza dal controllo.

I numeri sull’occupazione che il governo rivendica ‒ mezzo milione di posti di lavoro in più, record di occupazione femminile ‒ vanno letti con cautela. Crescite modeste dopo anni di stagnazione non rappresentano una svolta. E se ci sono più occupati, è anche perché tanti giovani emigrano, tanti lavoratori accettano impieghi precari o sottopagati pur di rientrare nelle statistiche. Il problema non è solo quanto si lavora, ma come, dove, in che condizioni. E soprattutto: quanto spazio resta alla libera iniziativa?

In nome del lavoro, si legittima tutto: sovvenzioni a pioggia, interventi dirigisti, comitati, decreti, codici. Ma si tace il principio fondamentale: il lavoro non è un diritto da esigere dallo Stato, è una libertà da esercitare nel mercato. Non esiste senza domanda, senza impresa, senza capitale. Non si può garantire se si demonizza il profitto, si disincentiva il rischio, si blocca la concorrenza. Ogni volta che l’apparato pubblico interviene per “favorire il lavoro”, finisce per ostacolarlo.

Non esiste crescita sostenibile se non si inverte la logica perversa che vede nell’intervento centrale il motore dell’occupazione. L’esperienza storica dimostra che dove si è lasciato spazio alla creatività imprenditoriale, la ricchezza si è diffusa. Dove si è invece tentato di sostituire l’ordine spontaneo del mercato con la pianificazione, si sono generati stagnazione, debito, sfiducia.

La libertà economica è la condizione necessaria non solo per creare occupazione, ma per garantire una società dinamica, responsabile, aperta. In realtà, espressioni come “giustizia sociale” risultano del tutto vuote se applicate ai risultati di un’economia di mercato: non esiste alcun criterio oggettivo per stabilire cosa sia giusto o ingiusto in una società dove ognuno usa liberamente le proprie conoscenze per raggiungere i propri fini. Cercare di imporre un modello globale di distribuzione è incompatibile con la libertà e la responsabilità individuale.

L’Italia non ha bisogno di altri fondi da distribuire, ma di meno vincoli da subire. Non servono nuove regole, ma l’abolizione di quelle che frenano. Non più tutele, bensì più libertà. E soprattutto, non occorre l’intervento pubblico per celebrare il lavoro, perché troppo spesso sono proprio le istituzioni a ostacolarlo.

Lo ha spiegato efficacemente anche Sergio Ricossa, osservando che “quando lo Stato impone il lavoro, sia pure col pretesto di voler dare lavoro, non più di un passo separa l’assistenza pubblica dal lavoro coatto”.

Aggiornato il 02 maggio 2025 alle ore 10:21