Malati d’odio: la sinistra cannibale e partigiana

È bene dirselo subito: non si scherza più. Sono due mesi che non ci leviamo dagli occhi e dalla testa quell’immagine orrenda di Charlie Kirk colpito al collo, il fiotto di sangue copioso. Giovane marito, giovane padre; aveva solo 31 anni. Era nei fatti il leader dei giovani conservatori americani, odiato dalla sinistra woke per le sue idee controcorrente. Voce ascoltatissima tra i repubblicani e astro nascente della galassia Maga: nel 2012, a soli 18 anni, aveva fondato “Turning Point Usa”, organizzazione con l’obiettivo di dar voce ai giovani conservatori nelle università americane spingendoli a mettere le idee davanti alla paura. È stato l’artefice di un cambio di prospettiva radicale: fino a qualche anno fa non sarebbe stata neanche pensabile una penetrazione così forte tra i ragazzi del messaggio repubblicano. Era la voce che si alzava quando tutti preferivano abbassarla. Era fantastico, Charlie Kirk. Un diamante. Non solo per il merito delle sue idee – così vicine a quelle di tanti di noi: credeva nel governo limitato, nel mercato, nella libertà, nei principi conservatori, era un difensore di Israele – ma ancora di più per il metodo socratico che utilizzava: è diventato celebre negli States, e grazie ai social in tutto il mondo, per aver offerto nelle sue iniziative – un tour di conferenze “Prove me wrong”, ossia “Dimostrami che ho torto”, un format costruito sul dibattito aperto e sul confronto – palco e microfono a chi esprimeva critiche, dissenso rispetto alle sue idee.

Puntava dritto al cuore della democrazia, all’incontro tra opinioni contrastanti che dovrebbe fisiologicamente animare il confronto pubblico sempre più influenzato, invece, dalla ripulsa verso chi non la pensa come noi: i suoi erano scambi in cui, con ordine, discuteva con chiunque volesse esporre punti di vista diversi. Pluralismo puro. Nessuna forma di violenza, solo domande e risposte davanti a migliaia di studenti nei college statunitensi più di sinistra. Un uno contro tutti che si sostanziava in un invito, verso chiunque avesse un’opinione avversa, ad utilizzare le parole. Ma loro hanno usato i proiettili. Un colpo secco, partito da 200 metri di distanza, ha posto fine alla vita di un uomo che per milioni di giovani rappresentava il barlume del riscatto conservatore in un’America polarizzata all’ennesima potenza e lacerata dalle divisioni ideologiche. È drammaticamente evocativa l’immagine della maglietta con scritto “Freedom” che Kirk indossava durante l’ultimo incontro davanti a tremila studenti nel campus della Utah Valley University, cercando il dialogo con la forza delle idee proprio mentre un cecchino dell’odio lo metteva nel mirino e sceglieva il piombo per farlo tacere. Perché rappresentava tutte le cose che il potere liberal (nell’accezione statunitense del termine) detesta, Charlie Kirk: un uomo bianco, marito, padre, cristiano, vicino a Trump, pro-vita e contrario alle teorie gender. Contro l’indottrinamento del pensiero unico aggrediva dialetticamente la sinistra nei suoi templi, in quei fortilizi in cui dominano il monolite woke e l’esacerbazione del politicamente corretto che mina l’identità, lì dove lo scontro delle idee genera più fastidio: le università progressiste. È risaputo che negli atenei americani ci sia spazio per una sola linea di pensiero, dogmatica e che non contempla contraddittorio. Kirk, invece, ha sfidato la sinistra proprio sul terreno culturale. E lo ha fatto col flusso argomentativo, quel metodo che ha dato vita al pensiero occidentale, il metodo di Socrate, di Pericle: stimolava il ragionamento critico in una battaglia di argomentazioni, esattamente quello che dovrebbe fare l’università. Per questo gli atenei lo ospitavano e gli studenti accorrevano in massa. Senza urlare, interrompere o offendere, sfidava la monocultura da campus e la stagnazione culturale dell’unica linea di pensiero ammessa.

Tra i coetanei, da solo contro tutti, in un contesto di ostilità. Mica cosa da poco, davanti agli studenti più incolleriti: forte delle sue idee, si metteva sotto quel cartello recante “Prove me wrong” e sfidava la maggioranza – fossero questi capelli blu, dreadlock, Propal, arcobaleni – contro woke, asterischi, cancel culture; contro il marxismo, il nazi-femminismo, gli eccessi Lgbtq. Aveva una abilità connaturata di smascherare le contraddizioni, gli slogan intrisi di retorica vuota, le affermazioni illogiche ripetute a pappagallo da gente imbufalita ma senza un briciolo di sostanza. Riusciva a discutere civilmente con quelli che son soliti andare in giro a raccontare che il comunismo sia giusto in un mondo dalle disuguaglianze troppo accentuate – e lui spiegava perché in realtà è un disastro; e perché le fondamenta cristiane dei principi culturali occidentali sono superiori alle follie autocratiche delle religioni fondamentaliste, oppure che in natura esistono solo due generi e che il woke rappresenta la morte civile. Sacra e limpida libertà dell’agorà, una potente lezione di metodo ed un formidabile antidoto contro il vizio patologico della politica di rintanarsi nel palazzo con le proprie granitiche certezze. Eccola la colpa di Charlie Kirk: essere campione di pluralismo con microfoni aperti a tutti. Il grande nemico, il dibattito democratico.

Per questo motivo la pallottola che ha centrato Kirk è più pericolosa di quella che voleva chiudere la carriera di Donald Trump, un anno fa, quando la stessa dinamica e la stessa sorte rischiarono di scatenare una guerra civile se il rieletto presidente degli Stati Uniti non avesse miracolosamente spostato il capo a distanza di pochi millimetri dalla traiettoria letale. Ovviamente nessuno dei due merita un proiettile nel collo; ma uccidere Kirk non significa ammazzare un politico – azione ovviamente ripugnante, come assassinare qualsiasi essere umano – bensì colpire la libera opinione. È un colpo alla parola, non alla parte. Ed è un colpo di fucile che apre il vaso di pandora: è la morte di Martin Luther King, perché è stato ucciso un giovane per le sue idee. E a colpirlo è stato chi si riempie la bocca tutti i giorni di pace e diritti ma che davanti a un pensiero diverso sceglie l’annientamento. È l’ipocrita parabola della ricerca della tolleranza che diventa alibi della violenza più bieca: per qualcuno il dialogo e il rispetto valgono solo se la pensi in modo conforme, se ti allinei. Altrimenti diventi un bersaglio. È la naturale conseguenza di una perenne campagna di demonizzazione – di qualunque tipo di destra, sia essa liberale, sociale o semplicemente d’area – da parte di una sinistra senza temi a caccia di nemici. Ribadisco: quello a Charlie Kirk non è un colpo a un uomo: è un colpo al diritto di discutere. È il frutto del paludoso clima di presunta superiorità morale e culturale di certa parte della società che pensa di poter imporre il proprio pensiero come l’unico ammesso, inconfutabile, come quello universale. Analizzata sotto questo aspetto, la morte di Kirk è per certi versi la metafora angosciante e catastrofica della trasformazione culturale che attanaglia il fu Occidente. Per secoli ci siamo vantati – a ragion veduta – di essere la civiltà della libertà: il luogo in cui il dissenso veniva tollerato, discusso. Difeso.

Oggi, invece, il dogma sembra essere l’uniformità: se non ti allinei al pensiero dominante sei un nemico. Da eliminare prima socialmente, con l’ostracismo (e quante sono le liste di proscrizione negli ultimi tempi?); poi fisicamente, con la violenza. Di questa parabola discendente siamo al triste completamento dell’inversione culturale: non è più l’Occidente a esportare libertà ma l’illiberalità dell’Oriente a dettare le regole di conformismo. È questo il nodo fondamentale della crisi identitaria di un Occidente oicofobico e terra di conquista: la trappola dell’intimidazione, il clima in cui i cittadini imparano che, per sopravvivere, è meglio piegarsi e tacere evitando di esprimersi. La paura del linciaggio mediatico, dell’emarginazione e della violenza fisica prevale sul principio di libertà, trasforma l’Occidente – un tempo patria delle idee – in un grande mercato silenzioso, e causa la sua trasmutazione in un simil Oriente dove la tolleranza è concessa solo a chi aderisce alla linea giusta. Eppure la storia, maestra, ci ha mostrato inequivocabilmente a cosa possa portare la logica di chi si sente – per ingenito diritto – superiore agli altri e depositario investito dell’unica verità accettabile: anche i totalitarismi del Novecento si credevano custodi di una missione superiore e tutti ne conosciamo il tragico epilogo, in Europa e in Russia, dove ogni crimine diventava lecito per chi pensava di commetterlo per un bene più grande.

Nel nome dell’ideologia è giusto sacrificare un essere umano: è ancora questa la sinistra di alcune menti malate che non guardano in faccia nessuno: loro, dalla parte giusta della vita; chiunque non lo sia, da silenziare – o addirittura eliminare. Questo è il vero fascismo: “Pensa come vuoi ma pensa come noi”, il mondo che la sinistra cosiddetta democratica e progressista ha contribuito a creare; il ritenere inaccettabile la libertà di un uomo che vuole esprimere le proprie posizioni. Non importa se si fosse d’accordo del tutto o solo in parte, come lo ero io, con Charlie Kirk – che aveva peraltro il merito oggettivo di coinvolgere migliaia di ragazzi (mentre a chiacchiere tutti lamentano un disimpegno dei giovani dalla politica) – conta, invece, il principio che non si uccide e non si lascia nemmeno che altri uccidano una persona che è in disaccordo con noi. E chiunque non si ritrovi in questo principio, rispolverasse Voltaire per imparare che le idee si combattono con altre idee; e chiunque non sia scosso dalla morte di un ragazzo ucciso per le sue opinioni, come qualche vanitoso idiota intellettualmente violento, è parte del problema. La fazione dell’odio è in preda a una frenesia violenta. Da un lato si esibisce in strenue difese verso i maranza tagliagole, in melodrammatici piagnistei se due rapinatori si schiantano in moto durante una fuga a centocinquanta chilometri orari per le vie del centro di Milano – e al contempo si scaglia contro la polizia che li insegue – difende con fervido fanatismo le groupie di Hamas, censura il filmato di un cannibale afroamericano che scanna in metro una ragazzina ucraina; dall’altro lato, giustificando i sicari, il filmato di Kirk – al quale una fucilata fa scoppiare la gola – quello lo riproduce e ne fa una mitologia volgarissima.

È la sinistra zombie, mediocrità dalle specificità violente e patetiche. Violenta come la crociata che combatte contro la destra e che assume contorni da bollettino di guerra – negli Stati Uniti, poi, raggiunge picchi preoccupanti: ormai ogni mattina un repubblicano si sveglia e sa di dover correre per raggiungere il giubbotto antiproiettile prima che si svegli il democratico; violenta come l’insofferenza che mostra per la palese inferiorità argomentativa causata dal crollo del castello fantasy che ha costruito, una realtà immaginaria che ha mostrato tutti i suoi paradossi e ha messo in mostra l’aridità e la riluttanza del terreno che pensava di coltivare, la maggioranza silenziosa, le persone; violenta come le orde di studenti che dall’università non hanno imparato nulla salvo che il mainstream della lezioncina di Christian Raimo, professor odio, la pratica “dell’Uccidere un fascista non è reato”, considerato che fascista sta per chiunque abbia una idea diversa dalla loro. I fascisti siete voi, fenomeni di sinistra; lo gridate mentre credete di combatterlo: un pensiero che non tollera dissenso e che, per imporsi, usa la forza. Che ne è stato di Sandro Pertini? “Io combatto la tua idea che è contraria alla mia, ma sono pronto a battermi al prezzo della mia vita perché tu la tua idea la possa esprimere sempre liberamente”. È sparito dai radar. E nel frattempo creano dei mostri: un popolo di “essi”, automi senza anima. È il simbolo di una civiltà che celebra la cancellazione dell’avversario: fanno schifo quelli che davanti alla morte di una persona riescono a scrivere “meno uno”, come fosse un sadico conteggio epurativo. I “democratici” di casa nostra: migliaia di persone che ti sembravano normali e all’improvviso li vedi strisciare nella miseria umana del gaudio innanzi alla morte, vermi che si sentono legittimati a esternare al mondo la loro esultanza per la morte altrui. Sono i mostri della “generazione dei diritti”, quelli che si stracciano le vesti per l’inclusione vuota di significato, quelli che esasperano concetti retorici senza parlare realmente di nulla, che si professano guru del giusto, del buono; quelli che si attribuiscono il primato morale – ma evidentemente, quando si crede di essere “i buoni”, gli altri non possono che essere “i cattivi” che debbono perire. Hanno deciso che essere d’accordo con quello che si dice valga molto più della vita; e pensano in assoluto, come se esistessero idee giuste ed idee sbagliate e che questo stabilisca chi merita rispetto e chi no.

È solo questa la chiave ideologica dell’assassinio di Kirk: il ritenere che un’opinione diversa dalla propria sia un crimine più grave di un atto omicida. È un momento che impone riflessione perché il limite è stato superato. L’odio cieco che il mondo progressista ha manifestato di fronte all’assassinio di Charlie Kirk dimostra chiaramente quanto in basso possa arrivare chi, carnefice con le mani sporche di sangue, si sente vittima: il nugolo degli eminenti propalatori d’odio ha una responsabilità enorme e vederla scegliere la strada della giustificazione – invece di assumersi le proprie responsabilità – è il segno di una deriva profonda. Anche in Italia il veleno cresce: la cappa di conformismo illiberale che non tollera disaccordo con le teorie del mainstream è la stessa degli anni di piombo. È un fatto che professori universitari (leggasi Donatella Di Cesare) arrivino ad elogiare le azioni di Barbara Balzerani, brigatista assassina – e per questo vengano candidate alle elezioni dalla sinistra dell’establishment, non più solo quella dello zero virgola. Sono bastati tre anni di Governo di centrodestra per riportare in strada, diffusamente, la violenza rossa e l’odio ideologico. Smettetela di aizzare le piazze! Io, liberale, credo nel dialogo e nella battaglia delle idee: ma davanti abbiamo dei cultori dell’intolleranza e della sopraffazione.

Le reazioni “popolari”, per l’appunto, sono antropologicamente tragiche. Sono disumane, per certi versi demoniache. Perché se a sparare con un fucile di precisione è stato un cecchino, ciò che davvero ha ucciso Kirk sono state le raffiche di parole di odio con cui la sinistra ha continuato a bersagliarlo. Fantocci ottenebrati dall’odio. Commenti incivili che lasciano atterriti. A partire dalle squadracce che, col cadavere ancora caldo, nell’arena dei social – quel tribunale permanente dove il dolore diventa spettacolo – si sono sbizzarrite con contenuti aberranti. La quantità di video di depravati che festeggiano l’uccisione di Charlie Kirk attraverso meme, canzoni e balletti TikTok con centinaia di migliaia di likes è realmente impressionante. Un disastro sociale. Addirittura un branco di automi invasati è arrivato a dire che sparargli è stato un atto di resistenza (non c’è da stupirsi se questi ciarlatani definiscano “resistenti” anche i terroristi palestinesi di Hamas). È possibile difendere la libertà di parola in un’epoca che premia l’etichetta e il linciaggio digitale? Certo, internet è il luogo dei facili deliri, ma le farneticazioni dei progressisti, i “democratici” e i sensibili di sinistra sono state aberranti e fanno riflettere sul livello di estremizzazione di una parte politica. Si palesa forte il vero problema, l’odio rosso. Un odio latente che aspetta, attende il momento giusto, poi si manifesta in tutto il suo fetore, colpisce ed infesta la società.

Secondo un report del Network Contagion Research Institute su un campione astretto agli elettori di sinistra, cinquantacinque persone su cento considererebbero giustificabile l’assassinio di Trump e ben quarantotto l’eliminazione di Elon Musk. La fabbrica dell’odio funziona a pieno regime, a riprova del fatto che le responsabilità sociali sono facilmente individuabili in quanto a provenienza: la sinistra occidentale deve riflettere sull’involuzione culturale che sta affrontando a partire dalla scientificità con cui la sua macchina mediatica individua un bersaglio all’esito della solita incivile attività di demonizzazione; e deve farlo subito perché la generazione di odiatori che sta allevando – come spesso accade – con la mente imbevuta di propaganda e la mano armata, presto o tardi passa ai fatti per la gioia della folla lobotomizzata. Fanno orrore anche le narrazioni aberranti proposte dai soliti giornaloni progressisti che hanno dato vita alla macchina del fango. Lo conosciamo bene il modus operandi tipico di certi intellettuali di sinistra quando una persona è più forte nelle argomentazioni: delegittimarne le posizioni. “Sei un violento”, “Inciti all’odio”, “Sei un fascista”, “Odi le minoranze”. È la tecnica che Daniele Capezzone definisce “dell’epiteto squalificante” da affibbiare a chiunque non si inquadri nel giusto filone di pensiero. Una volta, per esempio, era all’ordine del giorno “antisemita”: oggi che la battaglia di odio contro Israele e il popolo ebraico a sinistra l’hanno sposata per davvero, non va più di moda.

E allora i pericolosi giudici moralizzatori lo etichettano come un estremista, un violento, un controverso, un diffusore di fake news, un razzista, soltanto perché Charlie Kirk era di destra e aveva successo sul piano della dialettica. Si potrebbe scrivere all’infinito per elencare gli omicidi politici con questa matrice ideologica, e la narrazione è sempre uguale: sono le vittime ad essere violente, guerrafondaie, criminali, non i loro sicari; sono loro i mandanti dei crimini che essi stessi subiscono. Suicidio. Tentato, a volte. Come nel caso delle pallottole nel corpo di Indro Montanelli, per esempio. Che come Kirk aveva opinioni fuori dal coro e che come Kirk veniva definito “servo del regime”. Eppure il diario in cui Montanelli scrisse – dal letto d’ospedale dove venne ricoverato dopo l’attentato – di come nei salotti di Gae Aulenti e Inge Feltrinelli si brindasse alla sua gambizzazione e si deplorasse solo il fatto che se la fosse cavata, sono ancora lì. Nella storia, a far da monito. Evidentemente non bastano gli estremisti a emettere ed eseguire condanne per i nemici ideologici, c’è pure un’area borghese che sotto coperta è pronta a giustificare l’eliminazione degli avversari; e non si ferma neanche davanti al corpo ancora caldo di chi è stato abbattuto. Senza umana pietà e senza un minimo senso della verità. Per Charlie Kirk quella mediatica è la seconda morte, premeditata, che serve a giustificare la prima: una operazione dall’accuratezza scientifica col fine ultimo di appiattirne la figura.

È stato – al riparo da qualunque eufemismo di sorta – disgustoso leggere quegli articoli delle testate militanti e borghesi di sinistra. I teorici del “se l’è cercata”, a partire dalla colpevolizzazione della vittima, hanno dato il peggio di sé, tra i silenzi del macabro sottaciuto e il baccano stridente dei giustificazionismi più indegni. A sfogliare certi quotidiani e ad ascoltare certi interventi c’è stato da sopportare il rigurgito della nausea. Qualche esempio da voltastomaco, in giro per il mondo, giusto per dar la misura della vigliaccheria di taluni. Nei primi minuti della telecronaca dell’attentato, negli Stati Uniti, su una nota televisione di sinistra un commentatore ha statuito che si trattasse della logica conseguenza delle parole di odio che Kirk seminava. In sostanza ha voluto raccontare di come se la fosse andata a cercare. È stato costretto dall’emittente a scusarsi; e pare sia stato anche licenziato in tronco, per la verità. Eppure, quel vile, interpretava un sentimento diffuso che ricalca specularmente il clima che gli italiani di una certa età ben ricordano, quello degli anni di piombo in cui i morti si pesavano e gli attentati potevano anche avere qualche forma di legittimazione purché colpissero la parte avversa. Qui da noi c’è il comunista Piergiorgio Odifreddi.

Ascoltando in tivù la sua sparata che rimanda al sangue di via Caetaninon ho provato indignazione ma solo vergogna empatica. Ha nei fatti legittimato l’assassinio di Charlie Kirk, opinando: “Sparare a Martin Luther King o a un rappresentante Maga non è la stessa cosa. L’uno predicava la pace, l’altro l’odio”. Un commento meschino che vuole semplicemente lasciar intendere come esista una catena di valori – i suoi, evidentemente – per cui appare più giusto sparare a qualcuno che a qualcun altro. Parafrasandolo, “non uccidere” non vale sempre ma è una valutazione da subordinare al giudizio personale sul merito delle idee della vittima. Se è vero che tutti serbano, in un angolo remoto della mente, un cassettino con dei pensieri indecenti, e se è vero che grazie ad un certo senso del decoro e del limite ognuno li tiene nascosti perché un po’ se ne vergogna, Odifreddi – esternandole con orgoglio come se indecenti non fossero – ci ha dimostrato di non avere la minima consapevolezza dell’indecenza di alcune sue idee. Pensieri che, in definitiva, forniscono soltanto l’esatto metro del suo valore umano. C’è poi, ovviamente, l’immancabile Roberto Saviano, il santone che ha trascorso anni tra video, trasmissioni e spettacoli teatrali a parlare di umanità. Ancora una volta ci ha dato ragione: era solo finzione. Il grande bluff sociale che egli incarna s’impegna a uccidere Kirk già morto: “Non ho alcuna empatia con Charlie Kirk. Disprezzo ciò che ha detto. Non riesco ad accodarmi al coro morale di chi dice che qualsiasi vita umana va rispettata”. Personalmente, se dovesse capitare qualcosa di brutto al non empatico Saviano, nonostante la distanza abissale che ci separa, parteciperei sinceramente afflitto al cordoglio dei dolenti in quanto anche gli odiosi pontificatori – anche se a volte danno da dubitarne – appartengono al genere umano. Lui, evidentemente, non la pensa così.

Miseria rivoltante, il vero volto della sinistra da voltastomaco. Non poteva mancare Alan Friedman, altro grande bluff umano che condivide il cognome del grande Milton ma che appartiene alla nutrita schiera dei vigliacchi: nel giorno del dramma ha il coraggio di narrare di come la violenza sia in aumento grazie a gente come Kirk. Una sorta di “chi semina vento raccoglie tempesta”. Perché nella sua idea di fondo le posizioni di Kirk, in quanto di destra, erano automaticamente degne di essere squalificate. Disgustoso. Proprio come il governatore dell’Illinois che lo accusa di aver fomentato la violenza politica ed insinua che egli avrebbe avuto quel che si meritava o Leonardo Bianchi, il quale su questa stessa linea di finzione narrativa atta a creare una giustificazione, definisce Charlie Kirk uno che sforna “discorsi d’odio contro minoranze e comunità marginalizzate, teorie del complotto e dichiarazioni suprematiste”. Senza apportare prove a suffragio delle sue parole. Lo dice e basta, un po’ per sentito dire, un po’ perché non ha l’onestà intellettuale di indagare le radici tanto profonde quanto evidenti, dell’omicidio. Non fa esempi; non solo perché non ne esistono ma soprattutto perché non ne ha bisogno: Charlie Kirk è di destra, e anche per lui è scontato sia così. C’è poi il paradosso dei buoni per definizione, gli anacoreti che ci fanno lo spiegone su come la società americana sia polarizzata e nel frattempo sono i primi a cadere nel tranello della continua delegittimazione di chi ha idee diverse: emblematica Simona Siri che ha definito Kirk “un uomo estremamente intelligente, ma di quelli che hanno messo l’intelligenza al servizio del male” – solo perché non la pensava come lei, che evidentemente si autoproclama al servizio del bene.

Sul podio dell’orrore, ovviamente, la Repubblica che offre ai suoi coraggiosi lettori un’intervista ad uno scrittore americano il quale, nei riguardi della appena vedova Erika Kirk privata del marito nel fiore degli anni di entrambi – riferendosi al suo discorso evocativo del fuoco accesso dalla missione del marito – insinua ella stia assaporando la vendetta. Ma quel fuoco, ovviamente, non è il fuoco della violenza: è il fuoco ardente degli ideali, della passione, il fuoco dell’amor di Patria. Tuttavia, l’apice del ribrezzo, la vetta del voltastomaco ben oltre Odifreddi, Friedman e Saviano, lo guadagna la presidenza dell’Europarlamento che in plenaria – fra gli applausi scroscianti della sinistra – ha perfino negato il richiesto minuto di silenzio per commemorare Kirk. Un gesto semplice, di pietas pubblica, di rispetto umano, rifiutato per puro calcolo politico. Non è una questione di schieramenti: di fronte alla morte, dovrebbe rimanere almeno la dignità. Invece è stata calpestata anche quella. E così nessuno si inginocchierà per Charlie Kirk, come invece fu per un Floyd qualunque. Né a Bruxelles, né nei campi da calcio di tutto il mondo, né altrove. E forse è giusto così perché Charlie Kirk, come tanti di noi, è figlio di una cultura che non si inginocchia, pronta a morire, in piedi, per le proprie idee; del resto è morto proprio in questo modo: non zittendo qualcuno ma dialogando, esercitando quella libertà che oggi è diritto vietato a chi non si piega al mainstream del “giusto” che ha annichilito le isole di libertà.

In questa vicenda il corto circuito è devastante: ancor peggio del dramma è l’ipocrisia. A sinistra si professano ad ogni piè sospinto utili nemici della discriminazione e di ogni forma di violenza. Si battono continuamente per i diritti umani, civili, per la giustizia sociale, sempre in nome dell’uguaglianza e del progresso. Non perdono occasione per gremire le piazze delle grandi città per esternare pubblicamente la loro solidarietà, il loro fermo grido di indignazione. Si improvvisano pacifisti, guru dell’accoglienza indiscriminata, talvolta femministi o strenui difensori dei diritti e delle libertà dei popoli dilaniati dai soprusi. Quando le condizioni lo richiedono, quando c’è la possibilità di strumentalizzare un dramma, sanno essere tutto questo, brodaglia indefinita di politicamente corretto e qualunquismo; salvo poi, un attimo dopo, gettare la maschera e dar la prova che fosse tutto falso, arrivando persino a gioire per la tragica morte di un giovane colpevole di pensarla diversamente da loro: in tal caso, non un pensiero, non un parola, né un cenno di solidarietà. Se la sinistra che predica la tolleranza e l’inclusione a fasi alterne si trova davanti a un giovane conservatore, non discute: lo elimina (o ne giustifica l’eliminazione), perché è giusto così. O perché nel nome dell’ideologia crede ci siano le violenze progressive e quelle regressive di gramsciana memoria, accettabili o meno a seconda della loro paternità.

È per questo motivo che non c’è niente di strano se la sinistra dei parassiti sciacalla sull’omicidio di un uomo che aveva le sue idee, discutibili come tutte le idee, ma il cui grado di violenza si arrendeva al limite che catechizzava: esporle, cercando e accettando il contraddittorio. L’esatto contrario di chi è messianicamente convinto di avere tutte le ragioni del mondo e non accetta il confronto. No, non c’è niente di cui stranirsi; eppure continua a fare schifo lo squallore della loro malvagità, la vigliaccheria del loro astio. È la doppia morale che si cela dietro l’illusorio buonismo, infido e blasfemo moralismo, e le narrazioni artefatte propagandate ad uso e consumo dell’ideologia; è questa l’essenza dei seminatori d’odio travestiti da paladini delle libertà. La violenza ideologica trova fissa dimora nella sinistra che si crede padrona delle menti delle persone. Forse alcuni auspicano addirittura il comunismo dei pensieri, e in questo disegno e la violenza è solo il mezzo necessario per raggiungerlo. Karl Marx non aveva problemi a sostenere che chiunque si opponesse alla creazione di una società comunista diventasse automaticamente un nemico da eliminare.

Per esempio, ne Il manifesto del Partito comunista, affermava che i fini del comunismo “possono essere raggiunti solo col rovesciamento violento di tutto l’ordinamento sociale”; oppure, in altro scritto, asseriva: “C’è un solo mezzo per abbreviare, semplificare, concentrare l’agonia assassina della vecchia società e le doglie sanguinose della nuova: il terrorismo rivoluzionario”. E la ancor più violenta torsione filosofica del marxismo che fu propria dei bolscevichi al potere, quella di Lenin e Stalin per i quali il nemico del popolo doveva essere schiacciato, è ancora tra di noi. Proprio come testimonia l’omicidio Kirk che, in un certo senso, segna – essendone esegesi – il ritorno della strategia leninista: la distruzione di tutte le voci dei “nemici”. E se nella distorsione comunista del divenire storico il fine giustifica sempre i mezzi, a sinistra più pensano sia moralmente alto il fine, più moralmente basso sarà il mezzo che si sentono giustificati ad usare. Sotto questo aspetto di macabro pragmatismo fanatico, non sussiste nessuna differenza tra il finto intellettuale raffinato da prima pagina e la nullità militante dai capelli viola: sono entrambi geneticamente modificati dalla intolleranza furente di matrice comunista, “io ti schiaccerò”.

È la legittimazione della violenza come strumento di lotta, suffragata dagli strumenti retorici preferiti, la dittatura del giusto e i proiettili – dal momento che le cabine elettorali si stanno mostrando ovunque “nemiche del popolo”. È il complesso disagio degli imbevuti di propaganda, tutti quei deliri sulla superiorità morale utilizzati dalla galassia delle squadracce della sinistra da guerriglia come carburante per mettere a ferro e fuoco le città, impedire le manifestazioni o i convegni altrui, minimizzare le violenze, candidare e rendere paladine di una fantomatica “resistenza” (alle regole e alla democrazia) persone il cui unico “merito” è quello di essere accusate di violenza politica. Psicotici, incompatibili con qualsiasi forma di coesistenza, tolleranza, legittimo dissenso: parassiti in una democrazia. I comunisti sono più pericolosi che mai – e per questo bisogna aspettarsi i più bruschi colpi di coda di un’ideologia morente – perché hanno capito di aver perso la loro battaglia volta a distruggere la nostra identità: la lotta politica la intendono così, la praticano cosi, non conoscono altro modo. Ed il livello del dibattito in una certa sinistra non è un dibattito: prima è un piagnisteo indottrinante, poi una sparatoria. Che a chiamarli democratici invece di “tiratori scelti”, ci vuole arditezza. Di solito il sibilo dei proiettili canta Bella ciao ed è rivolto contro i “fascisti” presunti. Nel caso di Kirk, il sicario reo confesso – Tyler Robinson – è uno dei loro, uno psicopatico che non si accettava, tra gender e antifà, un soggetto problematico che declamava la giaculatoria del Bella ciao perfino sulle pallottole. Si, la narrazione con cui Robinson ha “condito” l’atto omicida è la parte più interessante: sui proiettili sparati per uccidere Charlie Kirk sono stati incisi degli slogan.

Uno è “Hey fascista, beccati questo”, rivolto all’obiettivo della sua follia; un altro è “Se leggi questo sei gay”, per dileggiare le posizioni anti–gender della vittima. E poi un ultimo: “Bella ciao, ciao, ciao”, il ritornello completamente destoricizzato utilizzato, in assenza di fascismo, dai ribelli antifà di tutto il globo e che dice molto su quanto pericolosa possa essere la retorica partigiana e la conseguente perenne caccia al fantasma. Robinson, insomma, nella convinzione di compiere un fiero atto antifascista, ne ha compiuto uno intrinsecamente fascista: l’essenza di ogni totalitarismo, eliminare l’altro per le sue idee. È la liturgia dell’antifascismo, una litania ridotta a slogan, fanatismi e feticci che racconta una variante parodistica – tragicamente, perché lascia cadaveri sul selciato – di un fenomeno novecentesco dai tratti stagnanti che produce odio ritualizzato e che Pier Paolo Pasolini (del quale ricordiamo la grandezza proprio in questi giorni, durante le commemorazioni per i 50 anni dalla sua scomparsa) e Leonardo Sciascia, menti libere e non intruppate, definivano “fascismo degli antifascisti”, una scarabocchio ideologico che perlomeno all’epoca poteva trovare giustificativo attecchendo sulle ferite ancora aperte di una tragedia totalitaria reale.

Mentre oggi, di quel ginepraio linguistico, è rimasto solo la modaiola e delirante furia ideologica, un tarocco che caratterizza la storia del progressismo occidentale degli ultimi settant’anni: quel che colpisce, ogni volta, è l’estensione infinita della definizione di fascista, anche a chi non c’entra affatto. Il fascismo “eterno” di Umberto Eco, che si riferiva quanti estendessero il marchio di fascista anche a persone, epoche e movimenti che col fascismo storico non c’entravano affatto, come Kirk e tanti altri. In questa incommensurabile tragedia c’è un solo aspetto (si fa per dire) positivo: le belve sono uscite dalla tana e persino la sinistra “intellettuale”, sull’onda del furore ideologico, si è messa a nudo concedendosi all’elogio e all’attenuante dell’omicidio politico. Ma la coperta è corta e la destra “responsabile” ha la strada spianata per portare avanti qualche battaglia consistente. La prima, di pura catechesi, già vinta: sottolineare – attraverso la lucida compostezza di chi, nel dramma, si stringe attorno alla famiglia della vittima, fa fronte comune senza scendere in piazza incitando a nuova violenza, urlando con la bava alla bocca, spaccando vetrine o incendiando automobili – la differenza fondamentale che c’è tra noi e loro: la differenza tra civiltà e barbarie. Charlie Kirk è martire di libertà e onorare la sua memoria servirà a ricordare che l’odio politico può forse uccidere un uomo ma non le sue idee: quelle no, non le abbatte un proiettile. Raccogliendo il suo testimone, siamo parte di uno tsunami. Il nostro è un manifesto di continuità: non più un solo microfono, ma centinaia; non più l’opera di un uomo, ma la missione di una generazione. Nel dramma di un colpo che ha spento una vita è nata una rivoluzione culturale. La rivoluzione della generazione Kirk.

Aggiornato il 10 novembre 2025 alle ore 10:39