
Il piano di pace presentato la scorsa settimana dal presidente americano Donald Trump, in stretta collaborazione con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, segna un potenziale spartiacque nella guerra tra Israele e Hamas. I venti punti dell’accordo prevedono il rilascio immediato di tutti gli ostaggi detenuti nei tunnel sotterranei di Gaza in cambio di un ritiro graduale delle forze israeliane dal fronte bellico, un cessate il fuoco duraturo e la smilitarizzazione del gruppo terroristico che governa la Striscia dal 2007. I vertici di Hamas hanno accolto parzialmente la proposta, accettando di liberare i 48 ostaggi rimanenti (di cui si stima che circa venti siano ancora in vita). Nonostante ciò, persistono numerosi dubbi sul futuro della governance di Gaza e sull’amnistia per i terroristi che decideranno di rinunciare alle armi. I negoziati che si svolgeranno a partire da questa settimana in Egitto, con la partecipazione di una delegazione statunitense guidata da Steve Witkoff e Jared Kushner, potrebbero raggiungere un punto di svolta entro il termine della festività di Sukkot. Abbiamo voluto discutere delle prospettive di pace e delle loro implicazioni con David Zebuloni, corrispondente esteri di Libero, cronista di Makor Rishon e collaboratore di Bet Magazine Mosaico, il mensile della comunità ebraica di Milano. Tra le voci più influenti del panorama giornalistico italiano sul Medio Oriente, Zebuloni analizza con il suo sguardo esaustivo e perspicace un ampio ventaglio di temi: dalla liberazione degli ostaggi all’ascesa dell’antisemitismo in Europa, passando per le contraddizioni ideologiche che animano il dibattito globale.
Stamattina avranno luogo i primi negoziati per finalizzare un accordo di cessate il fuoco a Gaza. Israele manifesta un cauto ottimismo: il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar ha recentemente dichiarato che la liberazione degli ostaggi potrebbe avvenire nei prossimi giorni, grazie al piano siglato da Donald Trump e da Benjamin Netanyahu. Come valuti i recenti sviluppi diplomatici? Le famiglie degli ostaggi riabbracceranno presto i loro cari?
Me lo auguro. Sono convinto che la questione meno trattata ma più impellente della guerra, per lo meno sul fronte israeliano, sia quella degli ostaggi. Il mio auspicio è che tornino a casa il prima possibile. Sicuramente, nella percezione diffusa dell’opinione pubblica, ciò vorrebbe dire concludere gran parte del conflitto. Sebbene oggi Israele sperimenti una routine quotidiana quasi regolare, un’ombra incombe ancora sul Paese: quella degli ostaggi, che non permette agli israeliani di condurre un’esistenza nella piena normalità. Con il loro rilascio Israele tornerebbe ad essere, per quanto possibile, ciò che è stato prima della strage del 7 ottobre. Detto questo, la questione rimane spinosa perché gli obiettivi di guerra del Governo Netanyahu, condivisi da quasi tutta la Knesset – Governo e opposizione – erano due: la liberazione incondizionata degli ostaggi, che sembra essere stata raggiunta, e la sconfitta di Hamas con il conseguente disarmo dell’organizzazione terroristica. Il secondo punto rischia di rivelarsi più complicato dato che, come potevamo facilmente immaginare, Hamas non dà pegno di voler cedere le armi e la leadership della Striscia di Gaza. Resta una questione irrisolta, e si dovrà osservare come il Governo israeliano sceglierà di affrontarla.
Negli ultimi mesi si è registrato un preoccupante aumento di attentati contro le comunità ebraiche nelle sinagoghe e nei luoghi di aggregazione, come durante lo Yom Kippur a Manchester. Gli episodi di antisemitismo stanno subendo un’impennata nei Paesi che considerano l’ipotesi di riconoscere lo Stato palestinese o che lo hanno già fatto. Alla luce di quanto sta accadendo, le classi dirigenti ragioneranno sulle conseguenze delle loro scelte politiche o continueranno a premiare i gruppi terroristici?
Purtroppo sono meno ottimista su questo fronte, perché non comprendo se i governi dei Paesi occidentali che hanno riconosciuto o che intendono riconoscere lo Stato di Palestina abbiamo veramente a cuore la salvaguardia delle comunità ebraiche locali. È un argomento che mi spinge a riflettere, perché vede al centro dei cittadini europei a tutti gli effetti: inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli, italiani. Prim’ancora che interessarsi a una causa geograficamente lontana, un premier dovrebbe dedicarsi a una questione che tocca una fetta anche minoritaria della sua popolazione. È allarmante che molti governi condannino a parole gli atti di antisemitismo, senza però intervenire con un piano che possa garantire la risoluzione definitiva del problema. Temo chi cerca invano di scindere l’antisionismo dall’antisemitismo, perché è quanto di più sbagliato si possa fare. Esiste un filo diretto tra chi odia Israele e chi odia le comunità ebraiche europee. Da due anni a questa parte le vite degli ebrei in Europa e, nello specifico, degli ebrei italiani sono state fortemente turbate dalla violenza a sfondo antisemita.
Le manifestazioni pro-Pal che hanno sfilato nelle città italiane vedono la convergenza tra gli antagonisti di estrema sinistra e i simpatizzanti del fanatismo islamico. Potresti tracciare un profilo dell’islamo-marxismo che sta imperversando in Europa? Pensi che questo mostro a due teste possa mettere sotto scacco la nostra civiltà?
Credo di non avere la capacità di farlo perché questo personaggio, fino a qualche tempo fa puramente immaginario, manca di una definizione chiara. Trovare degli elementi che uniscano in modo coerente le due realtà è un’impresa ardua, se pensiamo alla contraddizione di fondo. Gli esponenti politici, gli artisti, gli uomini e le donne dello spettacolo che si avvolgono nella bandiera palestinese rivendicano dei valori tipicamente legati all’Occidente, come la libertà, la democrazia e l’uguaglianza. Condannano il Governo di destra italiano, accusandolo di agire alla stregua di un “tiranno assoluto” che vuole sopprimere i loro diritti fondamentali, ma poi esibiscono un simbolo che rappresenta il contrario di quanto professano. Molte persone confuse sfoggiano bandiere che non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra: non riesco a decifrare un’assurdità simile. L’esempio più evidente di tale paradosso è chi sventola contemporaneamente la bandiera palestinese e quella LGBT.
Alcuni attivisti della Global Sumud Flotilla hanno raccontato alla stampa di essere stati “presi in ostaggio” dall’esercito israeliano: un’espressione che pone sullo stesso piano la vicenda dei prigionieri di Hamas e loro militanza. Perché i nemici di Israele tendono a utilizzare in modo ossessivo l’immaginario ebraico, appropriandosene per sostenere le loro narrazioni?
Da circa due anni rifletto su questo tema, perché riconosco l’ossessione con cui gli odiatori di Israele si appropriano della terminologia che caratterizza determinati episodi storici o alcune realtà ebraiche, attribuendo loro una connotazione negativa per creare una presunta simmetria tra le due cause. Sempre più spesso la guerra in corso è associata alla tragedia della Shoah; Gaza si trasforma in Auschwitz, Netanyahu diventa Hitler oppure, in questo caso, gli attivisti per la non-pace della Global Sumud Flotilla equivalgono agli ostaggi. Questo utilizzo improprio dei termini produce delle distorsioni pericolose. Se Israele sta compiendo un “genocidio”, il vero genocidio perpetrato ottant’anni fa dal nazifascismo assume dei contorni meno drammatici. Ciò vale anche per gli pseudo-ostaggi della Sumud Flotilla: visto che le forze dell’ordine israeliane hanno effettuato dei controlli a bordo delle loro imbarcazioni, il fatto che Hamas abbia tenuto prigionieri centinaia di israeliani non è poi così grave. Si cerca di sminuire ciò che il popolo ebraico vive da sempre e, in particolare, dopo il 7 ottobre. Devo ammettere che questa strategia stia funzionando: certi ambienti sono riusciti a screditare alcune cause che toccano il cuore pulsante delle comunità ebraiche in Israele, in Italia e nel resto d’Europa. Bisogna essere lucidi nel distinguere i vari avvenimenti storici e fare attenzione a usare un lessico appropriato per evitare gravi mistificazioni.
A luglio hai ospitato una diretta Instagram con tre autorevoli esponenti della diaspora persiana – Ashkan Rostami, Tooska Jahandideh e Maryam Moeinvaziri – per discutere le sfide contro il regime degli Ayatollah. Quali insegnamenti hai ricavato da questo confronto?
Queste tre persone straordinarie hanno comunicato un messaggio a mio avviso molto importante: gli occidentali pensano di sapere meglio di noi ciò di cui abbiamo bisogno. Decidono che Israele debba deporre le armi perché non giudicano Hamas una minaccia; decidono al posto del popolo persiano che la dittatura di Teheran non sia un male in confronto al Governo israeliano. Impiegando dei metodi di paragone approssimativi, stabiliscono cosa sia giusto e cosa sia sbagliato per chi vive i conflitti in prima persona. Questo atteggiamento li fa infuriare, e posso capire bene il motivo: per un lungo periodo le piazze italiane si sono riempite di manifestanti che gridavano lo slogan “Donna, vita, libertà”. Quando, però, Israele ha tentato di piegare quel regime teocratico, islamista, fondamentalista, razzista e omofobo, le stesse persone che partecipavano ai cortei si sono schierate convintamente dalla parte dell’Ayatollah. Credo che il senso di profonda ingiustizia espresso dai tre dissidenti abbia oltrepassato lo schermo, coinvolgendo chi ha seguito la diretta. In questo momento, tuttavia, ritengo che l’appello alle masse debba fondarsi sulla coerenza: da un lato, esortando alla ferma condanna del regime iraniano e dei suoi alleati, tra cui gli Houthi, Hezbollah e Hamas; dall’altro, promuovendo il sostegno verso chi condivide i valori di libertà, uguaglianza e democrazia.
(*) La foto è tratta dal sito web della Scuola della Comunità ebraica di Milano
Aggiornato il 06 ottobre 2025 alle ore 11:00