
Il recente riconoscimento di uno Stato palestinese da parte di Francia, Regno Unito, Australia, Canada e Portogallo è di fatto un premio ad Hamas, che si è infatti compiaciuto per questa decisione. Eppure, dovrebbe essere ormai a tutti chiaro che fino a quando Hamas manterrà il controllo della Striscia di Gaza qualsiasi Stato palestinese che dovesse nascere sarebbe inevitabilmente egemonizzato da quest’organizzazione terroristica e islamista, incompatibile con qualsiasi forma di vita democratica e con qualsiasi convivenza pacifica con lo Stato ebraico. Parlare oggi di riconoscimento significa dunque rafforzare proprio coloro che hanno scelto la via della violenza e del terrorismo, coloro che festeggiavano dopo i massacri del 7/10/23, coloro che si sono sempre rifiutati di restituire gli ostaggi israeliani e usano da molti anni la propria popolazione civile come scudo umano.
Riconoscere lo Stato palestinese tuttavia è giusto, anche per il governo italiano, tant’è che il partito di Giorgia Meloni aveva già avanzato questa proposta nel 2015. Ma oggi, dopo il 7/10/23, essa può essere ritenuta ancora valida solo a due condizioni: il rilascio degli ostaggi e il divieto di accesso di Hamas al potere del nuovo Stato, condizioni queste che si possono verificare solo dopo la sua sconfitta definitiva, che a questo punto può essere conseguita, a meno che non ci sia un suo inopinato e tempestivo disarmo, solo portando a compimento l’azione militare in corso a Gaza. Solo così si può aprire lo spazio politico per un’entità palestinese davvero nuova, libera dall’estremismo islamista e capace di rappresentare il suo popolo in modo legittimo.
Interrompere ora l’azione militare a Gaza significherebbe invece lasciare in piedi il potere di Hamas avendolo reso ancora più forte, significherebbe per Israele aver ucciso alcune decine di migliaia di persone senza conseguire il proprio obiettivo, e dunque con il solo il risultato di aver indebolito drasticamente la propria posizione geopolitica e aver buttato benzina sull’antisemitismo dilagante nelle società occidentali. Significherebbe, cioè, dare corpo esattamente a ciò che Hamas si proponeva di conseguire. Quindi, gli Stati che hanno preso la decisione di riconoscere simbolicamente lo Stato palestinese non solo è pienamente in linea con i desiderata di Hamas, ma mantenendo in vita quest’organizzazione criminale rischia di precludere anche la strada a qualsiasi ipotesi di pace futura tra lo Stato palestinese e Israele.
Alla luce di queste considerazioni, anche per Israele sarebbe però politicamente controproducente impedire la nascita di uno Stato palestinese disposto a riconoscere il diritto di esistere dello Stato ebraico dopo la sconfitta di Hamas. Netanyahu e la maggior parte dei suoi ministri pare non vogliano sentirne parlare, perché pensano che uno Stato palestinese sarebbe destinato a muovere guerra ad Israele, o a trasformarsi in breve tempo in una nuova Gaza, ma questo non è affatto evidente. In realtà, con la nascita di uno Stato palestinese che riconosca a Israele il diritto di esistere si profilano due scenari possibili: nel primo, quello decisamente più positivo, si creerebbe una situazione di rispettosa convivenza sostanzialmente pacifica simile a quella che fu possibile con l’Egitto dopo gli accordi di Camp David; nel secondo, cioè nell’ipotesi più pessimistica, si profilerebbe la situazione paventata da Netanyahu. Ma anche in questo caso, la situazione non sarebbe svantaggiosa per la sicurezza complessiva d’Israele rispetto alla sua alternativa, ovvero il dover combattere contro diverse organizzazioni terroristiche dislocate in diversi paesi arabi.
Quando infatti un conflitto avviene tra due Stati sovrani che si riconoscono reciprocamente il diritto di esistere, ogni attacco può essere seguito da un contrattacco legittimo, fino alla vittoria o alla sconfitta. La guerra, in questo caso, pur continuando a provocare effetti tragici e disumani come sempre accade, può rientrare più facilmente nei contorni di legalità previsti dal diritto internazionale: due eserciti regolari, due governi responsabili, due popoli rappresentati. Viceversa, quando un attacco proviene da un popolo senza Stato, privo di un esercito ufficiale e con miliziani terroristi che si nascondono tra la popolazione civile, la reazione militare, per quanto legittimata dalla necessità di difendersi, rischia inevitabilmente di assumere l’aspetto di un massacro. Si può produrre così, nell’opinione pubblica mondiale, persino l’erronea impressione che sia in corso un “genocidio”, con conseguenze devastanti per l’immagine di Israele e la sua pozione nello scacchiere geopolitico globale. Non solo: ogni volta che si devono andare a colpire i propri nemici in altri Stati sovrani che li ospitano, come nel caso del Libano o quello recente del Qatar, si è costretti ogni volta, se ci si vuole difendere, a infrangere le regole dello stesso diritto internazionale che, per quanto siano discutibili, esistono e dovrebbero essere rispettate.
È dunque proprio nell’interesse anche dello Stato ebraico, oltre che del popolo palestinese e della comunità internazionale, lavorare di nuovo con convinzione e pazienza alla prospettiva dei due Stati, che rimane ancora oggi l’ipotesi in grado di offrire le garanzie di sicurezza maggiori a entrambi i popoli. Uno Stato palestinese che non sia ostaggio delle fazioni terroristiche, ma un’entità politica che sappia riconoscere Israele, rispettarne i confini e porsi come interlocutore legittimo nella comunità delle nazioni, rimane quella più propizia a una pace duratura, o comunque quella che potrebbe essere meglio in grado di evitare guerre future che si ripercuotano soprattutto sui civili.
Il percorso è tutt’altro che semplice: implica innanzitutto lo sradicamento di Hamas da Gaza e la costruzione di una leadership palestinese affidabile, in grado di esprimere un’autorità stabile e non corrotta, capace di rappresentare davvero il suo popolo. Ma l’opportunità storica c’è, e passa da un’alleanza più ampia: quella con i Paesi degli Accordi di Abramo, con l’Autorità Nazionale Palestinese, magari rinnovata nei suoi vertici, e con tutti quei palestinesi che si sono opposti con coraggio al regime totalitario e islamista di Hamas.
Solo così Israele potrà ritrovare il consenso e l’appoggio di paesi tradizionalmente alleati che lo hanno in passato sempre considerato un riferimento fondamentale per la democrazia. La difesa dei valori comuni sarà tuttavia possibile solo costruendo una pace duratura che non sia un semplice cessate il fuoco, ma una convivenza fondata su un riconoscimento reciproco e una responsabilità condivisa. In un contesto globale sempre più sensibile alle immagini, alle suggestioni irrazionali, agli effetti di una guerra senza esclusione di colpi nel campo dell’informazione e della propaganda, l’esistenza di uno Stato palestinese libero da Hamas non sarebbe infatti soltanto una garanzia per i palestinesi, ma anche il più solido baluardo per la sicurezza stessa di Israele e per la credibilità in generale delle istituzioni democratiche in un mondo in cui queste sembrano ogni giorno sempre più messe in discussione.
L’alternativa alla possibile convivenza pacifica tra uno Stato palestinese senza Hamas e Israele sarebbe un conflitto permanente destinato a proliferare ricorsivamente non solo in Medio Oriente, ma anche all’interno delle società occidentali, con il rischio di trasformare progressivamente l’Europa in una grande Gaza, situazione questa cui sembrano aspirare tutte quelle forze politiche che oggi cercano di destabilizzare i loro Paesi sfruttando cinicamente l’ondata antisemita provocata dalla strategia criminale di Hamas.
Aggiornato il 30 settembre 2025 alle ore 13:08