
Quanto a lungo si possono tenere parecchi fronti di guerra aperti? Nel caso di Israele, fintanto che il Cerchio di fuoco, voluto dagli ayatollah tutto attorno ai suoi confini, non avrà trovato una soluzione militare e politica definitiva. Ma, per fare questo, occorre che esista un regista credibile, che metta attorno a un tavolo popoli che si odiano da tempo immemorabile. Il “tutti contro uno”, che unisce gli arabi musulmani contro gli ebrei, non è il risultato di una lotta vitale per la sopravvivenza e per un territorio conteso ma, al contrario, una santa alleanza politico-religiosa da parte di Nazioni islamiche, che si confrontano con un David giudaico sempre più isolato nel mondo, per cui la guerra permanente resta la sua unica arma di minaccioso dialogo.
Il problema, per Israele, è rappresentato dall’orizzonte negato di una pace impossibile, perché milioni di palestinesi non hanno oggi un luogo sicuro dove andare, e la solidarietà interaraba impone la chiusura dei confini ai profughi disperati, contando sul fatto che la loro gestione a medio-lungo termine si rivelerà disastrosa per Israele, e foriera, per saecula saeculorum, di futura violenza e di terrorismo come mai si era registrato in precedenza. Ormai, la decisione militare dell’invasione è presa e Gaza non potrà mai rinascere dalle sue ceneri, come quando venne liberata nel 2005 dai coloni e restituita alla sua sovranità limitata, che non ha trovato altra espressione politica se non il radicalismo armato e terrorista di Hamas che, ironia della Storia, ha la stessa repulsione (a parti invertite) di Benjamin Netanyahu per la soluzione (ormai del tutto utopica) dei “Due Stati”. Per gli uni, infatti, non esiste altro che il sacro territorio dell’Islam, mentre per l’altro è la Terra promessa nientemeno che dal (comune!) Dio di Abramo.
Il guaio del mondo libero è che a federare questo fronte eterogeneo (Libano, Iraq, Siria e Palestina) sia stato l’Iran, il solo Stato teocratico sciita della regione, che si è dato la missione di liberare la terra del Profeta dalla presenza stessa della “Entità sionista”. Questo e non altro è stato il filo rosso che ha saldato tra di loro milizie del tutto eterogenee come Hezbollah, Hamas, Houthi e con loro i più disparati gruppi del terrorismo islamico che, per la prima volta, hanno ricevuto armamenti e un addestramento comuni, soprattutto per quanto riguarda la fornitura e l’uso di missili, droni e artiglieria pesante.
La follia dell’Occidente e degli Stati arabi del Golfo è di aver lasciato che le cose andassero esattamente in questo senso, per mera opportunità politica e per timore di una guerra con l’Iran, dato che il bersaglio privilegiato di Teheran è sempre stato Israele fin dal 1979, e non le ricchissime monarchie del Golfo. Quando, nel 2019, una salva di droni iraniani presero di mira (procurando gravi danni) grandi infrastrutture petrolifere dell’Arabia Saudita, un Donald Trump al primo mandato perse la (seconda) grandissima occasione per l’America di ridistribuire le carte in Medio Oriente: bastava intervenire in soccorso del suo storico alleato colpendo al cuore, come ha fatto pochi mesi fa, i siti nucleari iraniani, e il mondo c’è da credere avrebbe tirato un sospiro di sollievo, mentre Israele si sarebbe risparmiata di aprire un fronte così pericoloso e lontano. Ancora oggi, i super ricchi Stati del Golfo non hanno la minima intenzione di difendersi da soli, mettendo in campo propri soldati, e pretendono che sia il loro antico Lord protettore di Washington a farlo, in cambio di qualcosa che, però, ormai vale molto meno per gli Stati Uniti, che hanno raggiunto da tempo la sufficienza energetica.
Ancora prima di Trump, era stato Barak Obama a non mantenere la solenne promessa di punire con il ricorso alle armi chiunque (vedi l’eccidio perpetrato nel 2017 da Bashir Assad, bombardando con armi chimiche i quartieri ribelli durante la guerra civile) avesse violato la red line, che proibiva l’impiego di armi di distruzione di massa contro la popolazione civile. Oggi lo scenario è, se possibile, ancora molto peggiorato, dato che regimi sunniti come Turchia ed Egitto si trovano dalla parte della Fratellanza Musulmana e della Gaza distrutta, per cui non vogliono, né possono obiettivamente, proporsi come mediatori per una soluzione del conflitto. Idem per l’Arabia Saudita che, ancora una volta, si ritrova sul banco degli accusati per non avere finora fatto alcuna mossa concreta, venendo in soccorso dei palestinesi. Ovvio che, a questo punto, i veri nemici di Israele, che ha ricevuto la condanna internazionale come autore del genocidio nei confronti della popolazione palestinese di Gaza, hanno ottenuto una vittoria insperata, avendo riproposto in sede Onu il riconoscimento dello Stato di Palestina. Ma, anche qui: con quale leadership? Hamas? E quale territorio? La gruviera cisgiordana? Ora, se l’aspetto del genocidio è giuridicamente discutibile, politicamente viceversa esplica tutti i suoi effetti destabilizzanti sulla credibilità internazionale della democrazia israeliana, il cui Governo attuale è stato accusato di condotte definite criminali e isolato diplomaticamente, con la sola eccezione vistosa degli Usa.
Il dramma vero, epocale (come si è detto), è l’inesistenza di un dominus in Medio Oriente che sia in grado di avviare e consolidare un accordo di pace, unendo tra di loro fronti assolutamente eterogenei, come quelli palestinese, siriano, libanese e irakeno. Paradossalmente, prima della guerra del 7 Ottobre, è ben esistito “in negativo” un mediatore alla rovescia, un Burattinaio del terrore. Ovvero, l’Iran teocratico khomeinista: un regime dittatoriale che, dal 1979, ha sottratto immense risorse al benessere del proprio popolo, per costruire in più di 40 anni la sua trama eversiva, un vero e proprio “Cerchio di Fuoco” che circondava i confini terrestri di Israele. Proprio quella Teheran che ha investito molti miliardi di dollari per armare e formare sotto un unico comando (il tutto coordinato dal Gen. Qasem Suleimani, eliminato nel 2020 da un missile americano) i suoi proxy di Hamas e, soprattutto, Hezbollah. Ora, però, se non si guarda alla forza delle armi (che, oggettivamente, appartiene a Usa, Cina e Russia) un dominus pacificatore esiste eccome, ed è proprio la Vecchia Europa che potrebbe utilizzare l’arma umanitaria (ben più efficace impressionante di quella atomica, in questo momento), aprendo temporaneamente le sue porte ai milioni di gazawi rimasti senza casa e senza terra.
Esiste, infatti, una norma particolare in ambito dell’asilo comunitario che permette, come è accaduto per l’Ucraina, di assicurare l’accoglienza provvisoria a grandi numeri di profughi, dandoci così modo di evitare i “doppi standard”. Basterebbe davvero poco sforzo per ridistribuire con saggezza ed equilibrio i rifugiati palestinesi in quei Paesi europei “che ci stanno”, una sorta di Volenterosi umanitari. Occorre, in via preliminare, sottoscrivere un accordo tra questi ultimi, Israele, gli Stati arabi e gli Usa, la cui conditio sine qua non sia il rientro graduale e progressivo di tutti gli espatriati palestinesi, in una Gaza ricostruita (anche grazie a un congruo contributo economico della Ue), e senza più il mostro terrorista di Hamas al governo. Sarà bene che a Bruxelles si facciano quattro conti politici, per accorgersi degli enormi benefici di immagine e di alleanze che ne ricaverebbe l’Europa tartassata da Trump!
Aggiornato il 19 settembre 2025 alle ore 10:40