Scudi umani e ostaggi: il paradosso morale e politico di una logica rovesciata

Nelle guerre del passato, la distinzione tra combattenti e civili era considerata sacra: chi catturava ostaggi o usava i civili come scudi infrangeva le leggi di guerra ed era condannato senza esitazione dalla comunità internazionale. Esempi storici non mancano: durante la Seconda guerra mondiale, le Waffen-SS furono più volte accusate di crimini di guerra per l’uso di ostaggi civili, in particolare in Francia e in Italia, con rappresaglie contro villaggi e cittadini innocenti. Nel conflitto in ex Jugoslavia, la Corte penale internazionale per i crimini nell’ex Iugoslavia (Icty) ha condannato vari comandanti serbo-bosniaci per l’utilizzo deliberato di civili come scudi umani a Sarajevo e durante l’assedio di Srebrenica. Ancora più di recente, nel conflitto in Siria, l’uso di scuole e ospedali come basi militari da parte del regime e di gruppi armati è stato oggetto di condanna da parte delle Nazioni Unite. Oggi, nel conflitto tra Israele e Hamas, sembra che quella distinzione si sia dissolta, e con essa il principio della responsabilità. Hamas ha fatto della commistione tra militari e civili una strategia deliberata.

Non si tratta solo dell’ormai nota pratica degli scudi umani, che è stata a lungo, anche prima del 7 ottobre 2023, coordinata con il lancio di razzi da zone densamente popolate, dove erano stati costruiti chilometri di tunnel sotto scuole e ospedali, moschee e abitazioni. Il punto più critico riguarda l’uso sistematico degli ostaggi, perché dal 7 ottobre 2023 Hamas ha cinicamente trattenuto, spesso con la complicità di molti civili palestinesi, in condizioni di sofferenza centinaia di civili israeliani, compresi bambini, donne e anziani. Alcuni sono stati uccisi, altri mostrati in video a fini propagandistici, altri ancora rilasciati solo in cambio di detenuti palestinesi nelle carceri israeliane.

Si tratta di un crimine di guerra conclamato, riconosciuto come tale dal diritto internazionale umanitario. Eppure, nella percezione pubblica globale, la responsabilità delle loro sorti — come anche delle morti dei civili palestinesi — ricade quasi esclusivamente su Israele. Questa dinamica ha prodotto un effetto paradossale: chi viola il diritto internazionale ne trae vantaggio, mentre chi si confronta con quelle violazioni, cercando di neutralizzarle, è sottoposto a giudizio continuo. Israele, in quanto Stato, è obbligato a rispettare le Convenzioni di Ginevra e gli standard umanitari internazionali. Hamas, gruppo armato non statale, non solo si sottrae sistematicamente a questi obblighi, ma si avvantaggia del fatto che gli oneri legali e morali ricadano sul nemico che vorrebbe cancellare dalle carte geografiche. Ogni civile ucciso a Gaza si rivela così una sconfitta politica per Israele, anche quando quel civile è stato messo deliberatamente in pericolo da Hamas. Ogni ostaggio trattenuto diventa una leva di pressione su Tel Aviv, che viene accusata di non fare abbastanza per riportarlo a casa, anche quando ogni tentativo di liberazione rischia di provocarne la morte.

A tutto ciò si aggiunge un secondo livello di contraddizione: Hamas riceve da anni fondi e assistenza da organizzazioni internazionali, in particolare attraverso agenzie dell’Onu come Unrwa. Tali aiuti, destinati formalmente alla popolazione civile, finiscono spesso per sostenere indirettamente l’infrastruttura sociale e logistica del movimento islamista. Diverse indagini hanno rivelato che tunnel e depositi di armi si trovavano sotto scuole o ospedali gestiti da agenzie internazionali, spesso con la consapevolezza o la tolleranza della dirigenza locale. Molti sapevano, e nessuno, o quasi, ha parlato. In parallelo, Israele è sottoposto a inchieste, sanzioni simboliche, proteste diplomatiche, misure di boicottaggio dei suoi prodotti agricoli e industriali, mentre un’ondata di antisemitismo conclamato percorre sempre più diffusamente le strade, le piazze e le università delle democratiche società occidentali. Il risultato è un rovesciamento della logica del diritto: non è più chi commette il crimine a essere chiamato in causa, ma chi si trova a gestirne le conseguenze. Hamas ha interiorizzato questa asimmetria e ne ha fatto una strategia: più ostaggi, più civili a rischio, più condanne verso Israele. Si tratta di un paradosso pericoloso, perché mina le basi stesse della responsabilità e dell’etica in tempo di guerra.

Se la comunità internazionale continuerà a ignorare o minimizzare l’uso politico degli ostaggi e degli scudi umani da parte di Hamas – e magari, come proposto da Emmanuel Macron, anche premiando la sua strategia criminale con il riconoscimento di uno Stato palestinese nel momento più sbagliato per farlo - rischia di legittimare così un precedente devastante: quello di una guerra in cui l’impunità non appartiene a chi si difende dagli effetti di una feroce aggressione in uno dei pochi modi, se non l’unico, in cui può farlo con una certa efficacia, ma a chi infrange impunemente da molti anni le regole del diritto internazionale, adottando una strategia cinica e spietata sia verso Israele sia vero il popolo di Gaza.

Aggiornato il 31 luglio 2025 alle ore 10:59