
Il famoso detto popolare “il tempo è galantuomo” non si smentisce mai, anche in politica, al punto che ora tutti quei faziosi “pennivendoli” che gridavano ai quattro venti una ipotetica collusione politica tra Putin e Trump, devono ricredersi.
I medesimi dovranno ricredersi sul fatto che Putin abbia influenzato e condizionato a favore di Trump le elezioni presidenziali statunitensi, ma soprattutto saranno costretti a fare il mea culpa mea grandissima culpa per le accuse di essere “filo-russo” rivolte a coloro che confutavano queste surreali ipotesi, risibili già allora.
Dunque, andiamo ai fatti documentati, emersi dalle indagini svolte, ossia un’inchiesta interna dell’Agenzia, resa nota da Miranda Devine del New York Post, sconfessa il dossier del 2016 su cui si fondava il Russiagate: “Giudizi basati su fonti fragili, dossier screditati e pressioni politiche” Brennan e Comey ora nel mirino della giustizia.
Pertanto, a quasi un decennio dalle turbolente elezioni presidenziali del 2016, un rapporto interno della Cia, datato 26 giugno 2025 e diffuso dalla giornalista Miranda Devine del New York Post, ha scosso nuovamente le fondamenta del cosiddetto Russiagate.
Il documento denuncia manipolazioni procedurali, forzature analitiche e una conduzione altamente politicizzata dell’Intelligence Community Assessment (Ica) del dicembre 2016, ossia il documento che per primo accusò la Russia di voler favorire Donald Trump.
L’accusa che il team di Trump fosse colluso con il Cremlino – mai provata dalle successive indagini, incluso il rapporto Mueller del 2019 – viene ora definitivamente ridimensionata dalla stessa Agenzia che contribuì a innescare il caso. Il documento è stato commissionato dall’ex direttore della Cia John Ratcliffe, con l’obiettivo di esaminare a fondo le basi del giudizio espresso nell’Ica del 30 dicembre 2016.
Le conclusioni sono pesanti: l’assunto secondo cui Vladimir Putin “aspirava” a far vincere Trump si fondava su un singolo report privo di verifiche solide, inserito nonostante le obiezioni interne.
Secondo l’inchiesta, fu John Brennan, allora direttore della Cia, a selezionare personalmente un ristretto gruppo di analisti delle sole Cia, Fbi, Nsa e Odni, escludendo ben 13 delle 17 agenzie di intelligence federali, tra cui il National Intelligence Council (Nic), in altre parole, l’analisi fu operata da una cerchia chiusa e priva di contraddittorio.
Gravi anche le responsabilità sul contenuto del rapporto: il famigerato dossier Steele, commissionato su iniziativa della campagna Clinton tramite lo studio legale Perkins Coie, venne forzatamente inserito nonostante fosse già stato ampiamente screditato. Una e-mail interna del 29 dicembre 2016, firmata dal vicedirettore per l’analisi Cia, metteva in guardia Brennan: l’inclusione del dossier avrebbe “minato la credibilità dell’intero Ica”, ma le proteste vennero ignorate.
Risultato finale: il cuore dell’accusa – ovvero l’intenzione di Putin di aiutare Trump – appare ora come una costruzione arbitraria.
La Nsa, allora diretta da Mike Rogers, espresse solo “moderata fiducia” nella valutazione dell’Ica: in gergo intelligence, come confermato da una fonte a Ratcliffe e questo equivale a un rifiuto mascherato. Nientemeno, per Rogers, il Cremlino avrebbe potuto non preferire Trump, percepito come “imprevedibile” e “inaffidabile”, rispetto alla Clinton, considerata “gestibile”.
Inoltre, l’Fbi, inizialmente scettica sull’ipotesi di collusione, cambiò posizione sotto pressione del direttore James Comey. Infatti, nell’ottobre 2016, alti funzionari dell’Fbi avevano riferito al New York Times che non esistevano prove concrete di legami tra Trump e Mosca, ma la linea venne poi rovesciata, con implicazioni che oggi appaiono gravissime.
Dalle fonti del Dipartimento di Giustizia, si evince che l’ex direttore John Brennan e l’ex capo dell’Fbi James Comey sarebbero formalmente indagati per presunte irregolarità nella conduzione dell’inchiesta, tra cui dichiarazioni false al Congresso e uso distorto delle fonti, anche il ruolo di Christopher Steele, l’ex spia britannica autore del controverso dossier, è tornato sotto i riflettori.
In una deposizione del 2019, lo stesso Steele ammise di aver utilizzato informazioni non verificate fornite da fonti terze, molte delle quali legate alla propaganda russa. Il Russiagate dominò il discorso pubblico per anni, al punto che chiunque osasse mettere in dubbio la versione ufficiale veniva bollato come filo-russo o complottista.
Il nuovo rapporto della Cia, se confermato a livello istituzionale, smentisce ab imisi quella narrativa e solleva interrogativi inquietanti sull’uso politico delle agenzie di intelligence.
Come osservato da Simona Mangiante (avvocato e originaria di Caserta, ma soprattutto moglie di George Papadopoulos, l’ex consigliere di Donald Trump, coinvolto nel Russiagate, dopo la campagna elettorale del 2016) in una recente analisi, quanto emerge dal dossier Ratcliffe impone una rivalutazione storica dell’intera vicenda, incluse le responsabilità politiche, mediatiche e giudiziarie che hanno segnato l’epoca post-Obama e l’inizio della presidenza Trump.
Il nuovo rapporto Cia potrebbe segnare un punto di svolta epocale, le indagini sul Russiagate – lungamente celebrate come simbolo di difesa democratica – appaiono oggi come una costruzione fragile e manipolata, che ha inciso profondamente sulla fiducia pubblica e sulla legittimità delle istituzioni.
Al postutto, la domanda che resta sospesa è pesante: quanto del Russiagate fu indagine, e quanto fu operazione politica, ma soprattutto chi pagherà e quanto, per le proprie responsabilità?
Et posteris judicas
Aggiornato il 14 luglio 2025 alle ore 10:12