
Donald Trump ha mantenuto la promessa. Come paventavano diversi insider e funzionari militari vicini al commander-in-chief, l’attacco mirato degli Stati Uniti sui siti nucleari iraniani è arrivato nel weekend. Il raid su Fordow, Natanz e Isfahan, ribattezzato Midnight Hammer, ha segnato un punto di svolta nella presidenza del tycoon: una scommessa che potrebbe consacrarlo come artefice di una svolta diplomatica, o portare gli Stati Uniti a inaugurare una nuova guerra “diffusa” in Medio Oriente. A fare gli onori di casa ci ha pensato lo stesso Trump sul suo social network Truth, con una nota in cui per la prima volta apre all’ipotesi di un rovesciamento del regime degli ayatollah: “Non è politicamente corretto usare il termine cambio di regime, ma se l’attuale regime iraniano non è in grado di rendere l’Iran di nuovo grande, perché non dovrebbe esserci un cambio di regime??? Miga!!!”, ha scritto trasformando l’acronimo “Maga” (Make America Great Again) in “Miga”, adattato al contesto persiano.
L’offensiva è stata diretta personalmente dal commander-in-chief dalla situation room, accanto ai suoi più fidati collaboratori, prima dell’annuncio pubblico e del discorso alla Nazione. A operazione conclusa, Trump ha invocato la pace, pur rivendicando i “danni monumentali” inflitti agli impianti nucleari iraniani. E ha avvertito che ogni ritorsione da parte di Teheran contro civili o soldati americani – sono circa 40mila dislocati nella regione – sarà seguita da una risposta ancora più devastante. Nel frattempo, negli Stati Uniti è stato elevato il livello di allerta in tutte le principali città, da Washington a Los Angeles, in previsione di possibili attentati. La reazione iraniana non si è fatta attendere. Le piazze vicine ad Ali Khamenei – non tantissime in verità – invocano “vendetta”, mentre l’establishment denuncia la fine della diplomazia e “l’oltrepassamento della linea rossa”, in riferimento a una possibile minaccia alla Guida suprema: “la più rossa delle linee rosse”, ha tuonato il ministro degli Esteri Abbas Araghchi. Il capo della diplomazia volerà a Mosca per cercare l’appoggio di Vladimir Putin, mentre Teheran ha chiesto la convocazione urgente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Sul tavolo internazionale si è aperto un fronte contrapposto: da un lato Stati Uniti e Israele, dall’altro Iran, Russia, Cina e Pakistan.
L’Iran ha minacciato inoltre di chiudere lo stretto di Hormuz, crocevia di circa il 25 per cento del traffico mondiale di greggio e di un terzo del gas naturale: una mossa che farebbe impennare i prezzi dell’energia su scala globale. “Sarebbe un suicidio”, ha replicato il vicepresidente Usa J.D. Vance, chiarendo che Washington non ha dichiarato guerra all’Iran, ma intende “distruggere il suo programma nucleare militare”. Dello stesso tenore anche le parole del segretario di Stato Marco Rubio, che ha ribadito la disponibilità a negoziare un programma nucleare civile, purché senza arricchimento di uranio. Poi il capo del Pentagono, Pete Hegseth, ha provato a contenere le tensioni: “L’operazione non mirava al cambio di regime, Trump vuole la pace e l’Iran dovrebbe seguirlo”. Ma poche ore più tardi, lo stesso presidente ha rilanciato la possibilità di un ribaltamento dell’attuale leadership. Mentre le reazioni internazionali si sono divise. L’Unione europea e le principali capitali europee – da Parigi a Roma – spingono per una ripresa immediata dei negoziati, la condanna è arrivata dai Paesi del Golfo, dalla Lega araba, da Russia e Cina, che denunciano la violazione del diritto internazionale e del Trattato di non proliferazione nucleare. “È giunto il momento che l’Iran si impegni per una soluzione diplomatica credibile. Il tavolo dei negoziati è l’unico luogo in cui porre fine a questa crisi”, ha avvertito la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen.
In Italia, la premier Giorgia Meloni ha convocato una videoconferenza d’emergenza con i ministri competenti e i vertici dell’intelligence per valutare l’impatto della crisi e definire una strategia di contenimento. A seguire, colloqui con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e una lunga conversazione con la segretaria del Partito democratico Elly Schlein, che ha chiesto di non fornire supporto militare né logistico al conflitto. Insomma, sostenere la linea anti-nucleare senza incrinare l’asse con Washington, né pregiudicare il dialogo diplomatico. Alla riunione mattutina hanno preso parte i vicepremier Antonio Tajani e Matteo Salvini, i ministri Matteo Piantedosi, Guido Crosetto, Giancarlo Giorgetti, i sottosegretari Alfredo Mantovano e Giovanbattista Fazzolari, oltre ai responsabili dei servizi. L’obiettivo immediato è garantire il rientro sicuro degli italiani dalle aree a rischio: una quarantina di carabinieri sono già stati evacuati da Baghdad. Sul fronte economico, l’attenzione è massima per i possibili rincari dell’energia legati a uno stop dello stretto di Hormuz. “I rischi ci sono”, ha ammesso senza giri di parole il ministro degli Esteri, ricordando le “presenze americane e israeliane” sul territorio nazionale e innalzando l’allerta di intelligence e forze dell’ordine, con rafforzamento delle misure antiterrorismo e sorveglianza cyber. Nel corso della giornata, la presidente del Consiglio ha contattato i principali leader occidentali e regionali: dal presidente del G7 Mark Carney al cancelliere tedesco Friedrich Merz, dal presidente francese Emmanuel Macron al premier britannico Keir Starmer. Fino ai vertici del mondo arabo, tra cui il saudita Mohammad bin Salman, il presidente degli Emirati Mohamed bin Zayed e l’emiro del Qatar Tamim bin Hamad al-Thani. Obiettivo comune: fermare l’escalation prima che sia troppo tardi.
Sul terreno, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) ha confermato che non si registrano aumenti di radiazioni all’esterno degli impianti colpiti. Teheran riferisce di “diversi feriti” non contaminati. Ma il bilancio militare statunitense parla chiaro: i tre siti hanno subito “danni estremamente gravi”, con Natanz “completamente distrutta” e Isfahan gravemente compromessa. Resta un’incognita la situazione nel complesso sotterraneo di Fordow. Secondo fonti iraniane, parte dell’uranio altamente arricchito sarebbe stato trasferito in anticipo in una località segreta, circostanza che troverebbe riscontro in alcune immagini satellitari. Infine, il dispiegamento militare americano ha reso conto della supremazia militare a stelle e strisce: 125 aerei coinvolti, compresi i bombardieri stealth B-2, che hanno sganciato 14 bombe GBU-57 “Massive Ordnance Penetrator” da 30mila libbre ciascuna. Un attacco che, secondo il capo dello Stato maggiore congiunto Dan Caine, rappresenta “la più imponente operazione mai condotta con B-2, seconda solo a quella successiva all’11 settembre”. E il mondo guarda con il fiato sospeso.
Aggiornato il 23 giugno 2025 alle ore 14:58