
Quali sono i conflitti che Donald Trump predilige? Quelli che durano di preferenza 24 ore e che, poi, grazie al suo intervento t(r)aumaturgico smettono di esistere. Un tipico esempio è l’attacco Usa contro gli Houthi yemeniti, durato appena 30 giorni, al quale lo stesso presidente ha messo unilateralmente fine, dichiarando che tutti gli obiettivi erano stati raggiunti. Dopo di che, ha dato atto ai suoi nemici di avere coraggio e si è dichiarato fiducioso che manterranno la parola data di non mettere a rischio la navigazione internazionale nella regione, a eccezione dei trasporti marittimi verso il territorio israeliano, dato che gli Houthi si sono dichiarati in guerra con lo “Stato sionista”. Ovviamente, a rimetterci in tutto questo è proprio Israele, che oggi se la deve vedere da sola per fronteggiare gli attacchi missilistici dei ribelli yemeniti, i cui conseguenti allarmi aerei rovinano la pace ai suoi cittadini. Del resto, oltre a non voler aprire un fronte yemenita, da buon superstizioso, Trump ha preso atto del malaugurato incidente che gli ha fatto perdere un F/A-18 Super Hornet (costo 67 milioni di dollari) caduto in mare dalla portaerei sulla quale stava manovrando, dopo che tra l’altro gli Houthi avevano abbattuto alcuni droni d’attacco MQ-9 Reaper (veri gioielli dell’areonautica Usa), continuando a prendere di mira le navi da guerra statunitensi in navigazione nel Mar Rosso.
In alcuni casi, la folgore della mediazione trumpiana sembra aver funzionato bene, così com’è accaduto per la tregua precaria tra India e Pakistan, malgrado giorni prima il suo vice, J.D. Vance, avesse ribadito che gli Stati Uniti “non si sarebbero fatti coinvolgere in una guerra che non li riguardava”, dovendo poi fare una rapida marcia indietro rendendosi conto che si trattava di due potenze nucleari, e che il danno per l’America di una guerra tra Nuova Delhi e Islamabad avrebbe avuto effetti devastanti. Un altro successo “sprint” trumpiano è rappresentato dalla tregua tra la Repubblica democratica del Congo e il Rwanda, dove lo scontro in atto tra milizie interposte rischiava di innescare un pericoloso conflitto regionale. L’accordo tra Kinshasa e Kigali, per capire lo stile politico-affaristico di Trump, è stato negoziato da Marco Rubio e Massad Boulos, quest’ultimo suocero di Tiffany Trump e uomo d’affari americano-libanese, con solidi contatti in Africa, che hanno condotto a termine il precedente tentativo di Avril Haines, già vice direttrice della Cia e vice consigliere per la Sicurezza nazionale durante la presidenza di Barack Obama. Come c’era da aspettarsi, la diplomazia di Donald Trump, che si vuole diretta, rapida e opportunistica, appare efficace nell’emergenza, ma molto meno o per nulla quando si tratta di stanare vecchie volpi della trattativa come gli ex sovietici putiniani.
Malgrado l’offensiva di charme fatta fin dall’inizio del suo mandato dal Presidente Usa nei confronti di Vladimir Putin, perché a suo giudizio, al contrario di Volodymyr Zelensky, era il solo ad “avere le carte” in mano per giocare la partita della trattativa, il suo interlocutore russo continua a farsi desiderare, sfogliando la margherita del “ci sarò/non ci sarò” al tavolo turco della trattativa con il nemico ucraino. Ma, la delusione ancora maggiore per Trump è venuta proprio da Israele, il migliore alleato dell’America. Infatti, la ripresa dell’offensiva israeliana, che ha interrotto il breve cessate il fuoco ottenuto giorni prima del suo insediamento, con la conseguente liberazione di una parte degli ostaggi (orchestrata da una spregevole regia mediatica di Hamas), sta funzionando da intralcio ai piani americani di rilancio in grande stile degli Accordi di Abramo e, quindi, di una pace duratura nella regione. Non per nulla, nel viaggio mediorientale di Trump non è stata prevista una tappa a Gerusalemme, creando così non poco disagio al governo di Tel Aviv. Malgrado che il tycoon continui a sognare un (quanto mai improbabile) premio Nobel per la pace, si vede costretto per ora a fare sue le guerre di (Joe) Biden, come lui le definisce provocatoriamente. Forse proprio per questo, la diplomazia americana è divenuta “cosa sua”, nel senso che i suoi più diretti collaboratori sono impegnati su dossier quanto mai defatiganti, con carichi di lavoro impressionanti.
Così come sta accadendo al povero Steve Witkoff, suo amico personale e socio in affari, ma con nessuna esperienza in campo diplomatico, al quale sono stati affidati, nientedimeno, dapprima i negoziati tra Israele e Hamas, poi la trattativa con Russia sulla guerra in Ucraina e, infine, il tentativo di accordo nucleare con l’Iran, con massimo scorno di Benjamin Netanyahu, che ha visto sconfessata a sua aspirazione ad attaccare i siti nucleari iraniani con l’aiuto dell’aviazione americana. Per capire la disinvoltura del metodo al fulmicotone di Trump, è sufficiente dare un’occhiata da vicino al dossier iraniano, in cui la Casa Bianca va per conto suo, malgrado esistano forti correnti contrarie all’accordo con l’Iran proprio in seno allo stesso Partito Repubblicano. E questo voler andare contro corrente di The Donald giustifica il siluramento dell’ex consigliere alla Sicurezza, Mike Waltz, che avrebbe favorito i preparativi segreti di Netanyahu per incursioni aeree congiunte contro i siti sensibili iraniani.
Questo superlavoro diplomatico riguarda anche Marco Rubio, essendosi dovuto far carico ad interim anche della Sicurezza nazionale, finendo così in un ufficio adiacente a quello del presidente statunitense. Il quale, da parte sua, inizia ad averne abbastanza, a onor del vero, delle tattiche dilatorie del suo partner russo, al quale ancora prima di iniziare a trattare ha concesso tutto il concedibile, ovvero l’annessione della Crimea e dei territori già occupati, compresa l’assicurazione che l’Ucraina non entrerà mai a fare parte della Nato. E visto che Putin insiste e persiste nella sua tattica dilatoria, alzando sempre più la posta per trattare direttamente con Zelensky, Trump nel frattempo ha autorizzato la consegna a Kiev di pezzi di ricambio per gli F-16 in dotazione all’Ucraina, pronto a fare molto di più se l’avviso al siberiano non sortisse gli effetti sperati. Ma, la roulette Trump-Putin gira ancora, e tutti e due si augurano di non finire sullo zero, in cui perderebbero entrambi!
Aggiornato il 14 maggio 2025 alle ore 09:34