Le favole di chi osteggia la riforma della giustizia

I sempre più inferociti oppositori alla riforma della Giustizia Nordio, ribadendo all’unisono una favoletta raccontata dal procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, sembrano non rendersi affatto conto della differenza abissale che esiste in questo delicato settore del sistema democratico tra un principio edificante e la cruda realtà dei fatti. In particolare, la stessa favoletta è stata raccontata, a beneficio delle nostre anime belle, da Cinzia Sciuto, direttrice di MicroMega, martedì mattina su La7. In sintesi, interpellata in merito alla citata riforma dal conduttore di Omnibus, la giornalista ha definito molto grave il tentativo di mettere sullo stesso piano il pubblico ministero e l’avvocato della difesa (cosa peraltro stabilita dall’introduzione del sistema accusatorio ispirato da Giuliano Vassalli, in cui accusa e difesa si trovano in una situazione di sostanziale parità di fronte a un giudice terzo), perché, a suo dire, ciò impedirebbe allo stesso pubblico ministero, trasformato in una sorta di avvocato dell’accusa, di ricercare anche le prove in favore dell’imputato, così come ciò viene attualmente stabilito dalla legge.

Ora, questa edificante favoletta cozza maledettamente con quello che costantemente le cronache giudiziarie ci raccontano, laddove soprattutto sui casi mediatici prevale qualcosa di lontanissimo rispetto al magnifico paradigma citato dalla Sciuto. In sostanza, come ha spesso spiegato Alessandro Meluzzi, in Italia c’è una preoccupante tendenza a restringere rapidamente il campo dell’azione penale su una sola direzione, elaborando un teorema su cui costruire un traballante castello accusatorio, escludendo praticamente a priori qualsiasi altra pista. Gli americani definiscono tutto questo “visione ristretta”, ossia l’anticamera di qualunque possibile errore giudiziario. In altri termini, prima si stabilisce chi sia colpevole e poi si vanno a cercare le prove.

D’altro canto, il pasticciaccio brutto di Garlasco, che non è certamente un unicum nel nostro Paese, rappresenta un formidabile caso di scuola di una giustizia teorematica che, per condannare una persona sulla base di indizi a mio avviso risibili, ha tralasciato di indagare a 360 gradi, reinterpretando più volte gli stessi labili indizi fino a convincere i giudici dell’Appello bis e della Cassazione, malgrado due assoluzioni consecutive e contro il parere di Oscar Cedrangolo, il magistrato che sostenne l’accusa di fronte alla Suprema Corte. Pertanto, in questo caso di scuola, di cui si discute fino allo sfinimento nella maggior parte delle emittenti televisive, mi sembra che sia avvenuto l’esatto contrario rispetto alla favoletta raccontata dai parrucconi della giustizia, ovvero si è fatto il possibile e l’impossibile per incastrare il “biondino dagli occhi di ghiaccio” senza se e senza ma.

Aggiornato il 05 novembre 2025 alle ore 09:49