
Sull’Ucraina, il problema principale è che non si riesce a trovare il bandolo della matassa. Sembra proprio che l’Europa non capisca cosa stia accadendo e, soprattutto, perché si sia prossimi a toccare il punto di non ritorno della crisi con la Russia. Dalla parte della barricata europea, fin dal primo giorno dell’invasione del territorio ucraino, si è ragionato postulando che la sfida militare lanciata da Vladimir Putin fosse la mossa della disperazione di un dittatore in caduta libera. Un leader delegittimato sul fronte internazionale, pronto a tuffarsi in uno scenario infernale da cupio dissolvi, come in una tragedia wagneriana, per concludere nel fuoco e nel sangue una demoniaca parabola politica. Stabilito, in via assiomatica, dove fosse il male e dove il bene, ai leader europei è sembrato doveroso fare ciò che, a loro insindacabile giudizio, dovesse essere fatto: armare gli ucraini per respingere l’invasore e, nel contempo, stringere la corda al collo dell’establishment di Mosca mediante il ricorso alle sanzioni finanziare, fino alla totale distruzione dell’economia russa.
Quindi, nessun negoziato, nessuna trattativa, nulla che avrebbe potuto lasciare in piedi, sebbene malconcio e umiliato, un Vladimir Putin nei panni di un dead man walking, un morto che cammina. Tale è stata la narrazione autoreferenziale della gaia brigata dei leader del mondo libero europeo. Poi, però, ha bussato alla porta della storia la realtà, che ha presentato il conto agli spocchiosi protagonisti della crisi. Un conto salato, per gli ucraini in primis e per tutti noi europei a seguire. Eccoci giunti a quasi quattro anni di guerra e non si vede un barlume di speranza in fondo al tunnel. Il “morto che cammina” Putin è più vivo che mai; il suo ipotizzato isolamento internazionale non c’è stato; al contrario, la sua leadership è divenuta centrale sia nel tentativo trumpiano di ristabilire un dialogo Usa-Russia, sia nella partecipazione attiva con la Cina alla costruzione di un asse economico-strategico globale, alternativo a quello occidentale. Mosca ha aumentato la presa sul continente africano e sulle sue preziose risorse minerarie.
L’economia russa che, nelle previsioni della gaia brigata dei “volenterosi” sostenitori di Kiev sarebbe dovuta crollare sotto l’effetto delle sanzioni, regge l’impatto della guerra. Mosca continua ad avere la leadership mondiale nel commercio degli idrocarburi (gas e petrolio) nonostante l’epica decisione dell’Unione europea di fare a meno – ma non troppo – delle generose forniture dispensate dalla russa Gazprom a prezzi di favore. In più, l’orso russo continua ad avanzare sul terreno, strappando quotidianamente pezzi di territorio all’Ucraina. La guerra prosegue e Mosca non ha alcuna intenzione di mollare.
Come risponde l’Europa? In due modi, sorprendentemente irrealistici, insieme a una postura da orchestrali del Titanic che continuano imperterriti a suonare mentre la nave affonda. Il primo modo. Accapigliarsi su fantomatici piani di intervento militare al confine russo-ucraino per garantire la sicurezza di Kiev una volta raggiunta una fantomatica pace. Una follia virtuale che non incrocia il piano inclinato del reale. Mosca non ammetterà mai la presenza di truppe europee a ridosso del proprio confine perché ciò significherebbe riconoscere la sconfitta. D’altro canto, è parimenti velleitario coltivare l’illusione di potere controllare uno spazio di confine immenso con le forze militari di cui i Paesi (volenterosi) dell’Unione europea dispongono. É una frontiera lunga 1.576 chilometri. Anche considerando di escludere i circa 400 chilometri di demarcazione delle Repubbliche di Donetsk e Lugansk, stabilmente nelle mani dei russi, occorrerebbero centinaia di migliaia di uomini, una logistica e un dispiegamento di mezzi e di sistemi d’arma in numeri di scala inaccessibili alle forze armate europee. Quindi, i “volenterosi” continuano a perdersi in riunioni e colloqui bi/multilaterali nella consapevolezza che un tale fumoso attivismo non porterà da nessuna parte. Pensate che Mosca non assista compiaciuta, e con qualche punta di perfida soddisfazione, a una simile fiera delle vanità?
Il secondo modo. Le leadership del Vecchio continente, non potendolo fare di persona, hanno appaltato il lavoro sporco ai media compiacenti, agli ambienti intellettuali progressisti, agli opinion-maker al servizio di Bruxelles. In cosa consiste? Nel coprire quotidianamente di insulti e di fango il presidente Usa, Donald Trump. In particolare, i detrattori sono scatenati nello stigmatizzare la presunta fascinazione verso l’autocrate russo che avrebbe portato il leader statunitense a vivere una disperante sindrome di Stoccolma, da vittima che si innamora del carnefice. Ecco che l’intera dinamica del rapporto tra i due capi di Stato più potenti al mondo, insieme al premier cinese Xi Jinping, venga declassata a materia da rotocalchi rosa, da gossip. Di questo passo, si precipita nel baratro perché questa Europa da nobiltà decaduta si ostina a non capire le ragioni profonde che hanno spinto la Russia a imbracciare le armi e a invadere l’Ucraina. Donald Trump le ha comprese e prova a cercare una via d’uscita praticabile per Mosca.
Perché anche noi europei non proviamo a fare il medesimo sforzo di intelligenza? Siamo stufi di stupidaggini propagandistiche dispensate in quantitativi industriali. Quando Mosca parla di cause profonde della crisi che vanno risolte in via propedeutica per poter approdare a una pace giusta e duratura, cosa intende? Non vuole la Nato in Ucraina perché non vuole i missili occidentali sull’uscio di casa. Potrebbe essere una motivazione credibile, ma non è sufficiente. Perché, se la preoccupazione fosse stata di tipo esclusivamente strategico, avrebbe dovuto muovere guerra all’Occidente ben prima, nel 2004 ai tempi dell’incorporazione delle repubbliche baltiche e della Romania nel sistema di difesa occidentale. Anche quegli Stati sono fuori della porta di casa russa. Il Cremlino ha lasciato fare, mentre sull’Ucraina tiene il punto. Perché?
È nostra opinione che un’eventuale transizione di Kiev nel sistema europeo non solo economico-strategico ma anche valoriale costituisca il punto di rottura di quell’equilibrio armato di mondi che fu raggiunto alla fine del Secondo conflitto mondiale e che ha garantito la pace continentale negli ultimi 80 anni. A Yalta non fu soltanto stabilita una spartizione dell’Europa per aree di influenza geostrategica, con la creazione di due blocchi contrapposti. Sulle ceneri della Germania nazista sorse un nuovo ordine fondato sulla spartizione filosofica di due sfere culturali d’influenza: l’una marxista, l’altra liberale-pragmatica. Con la fine dell’Unione sovietica, Mosca ha dovuto accettare di perdere pezzi storicamente aggregati al proprio impero ma ha opposto resistenza quando l’Occidente ne ha intaccato la carne viva, che si compone di storia, di cultura condivisa, di comuni appartenenze etniche, di osmosi sociali ed economiche. Nella logica della grande Madre Russia, perdere l’Ucraina equivale a un’amputazione che mette a rischio di sopravvivenza l’intero organismo.
Donald Trump, lungi dall’essere il pazzo demente descritto dalla propaganda progressista, ha individuato il centro del problema che è tutto nel contemperare le ragioni russe nella difesa proprio spazio vitale – che è solo parzialmente complementare, ma non antitetico, a quello della cultura della vecchia Europa, con il legittimo diritto degli ucraini ad autodeterminarsi. Il tratto saliente, che spiega la connessione sentimentale tra Vladimir Putin e Donald Trump sta nel fatto che quest’ultimo non disdegni affatto – da devoto seguace di quel John Dewey che è stato padre del neo-illuminismo e, come scrisse Marcello Veneziani in un apprezzato saggio sulla Rivoluzione conservatrice, “profeta dell’americanismo elevato a stile di vita” – la ricomposizione di un equilibrio planetario fondato su sfere d’influenza, anche geograficamente marcate.
Insomma, occorrerebbe ritornare a Yalta per ridefinire i termini di un nuovo ordine mondiale per aree sociali, economiche e culturali coese, in grado di garantire pace e stabilità per i decenni a venire. Ciò potrebbe comportare la necessità di tracciare una nuova linea di demarcazione che attraversi il cuore dell’Ucraina, spaccandola in due metà: una vocata a gravitare nella sfera russa, l’altra lasciata libera di seguire il suo destino europeo. Tuttavia, una nuova Yalta non sarebbe uguale alla sua illustre antenata. La sostanziale differenza rispetto al formato del febbraio 1945 consisterebbe nel prevedere quattro partecipanti invece che tre, con la Cina al posto di una declassata Gran Bretagna e l’inserimento di un rappresentante delle nuove potenze economiche emergenti che si vanno affermando sul piano globale e che, al momento, stazionano nell’organizzazione corsara denominata “Brics”.
Fintanto che non si prenderà atto che la crisi russo-ucraina vada inquadrata in un più ampio processo di riassetto degli equilibri planetari la pace non vi sarà e Donald Trump dovrà fare uno sforzo titanico per ottenere da Putin un cessate il fuoco duraturo, che cristallizzi la situazione determinatasi sul campo di battaglia. Il tutto a compiersi sopra le teste trasognate dei leader europei i quali drammaticamente somigliano a quegli ugualmente smarriti attori del pirandelliano Sei personaggi in cerca di autore. Che non è una bella cosa a dirsi, ma non lo è neppure a esserlo.
Aggiornato il 10 settembre 2025 alle ore 09:33