Dice a noi, monsieur Macron?

Oggi il primo ministro François Bayrou accusa di scorrettezza il governo italiano perché praticherebbe dumping fiscale ai danni del suo Paese; ieri Emmanuel Macron fa convocare l’ambasciatrice italiana a Parigi, Emanuela D’Alessandro, per protestare contro l’insolenza di Matteo Salvini mostrata nel pronunciare quel milanesissimo “Tàches al tram” (attaccati al tram) a proposito dell’idea di Macron di inviare truppe europee sul suolo ucraino. Perché i francesi ce l’hanno così tanto con gli italiani? Si potrebbe metterla sul piano della storia: è dal 1494 con Carlo VIII che Oltralpe pensano di fare dell’Italia la propria dépendance nel Mediterraneo. Ci provò Napoleone, riuscendovi per un tempo breve. Ma le mire francesi a prendersi pezzi d’Italia sono continuate fino al tramonto della Seconda Guerra mondiale quando un caricatissimo Charles de Gaulle, osannato vincitore molto oltre i suoi meriti reali contro la Germania e l’Italia, provò, approfittando della confusione generale regnante in Europa nei giorni convulsi della fine della guerra, di invadere Ventimiglia e la Valle d’Aosta. Era il 1945 e, per fortuna, in entrambi i casi fu rispedito indietro dalla resistenza dei cittadini che se non volevano più essere fascisti non desideravano di certo morire francesi.

E adesso che, in teoria, dovremmo essere tutti fratelli grazie all’Unione europea, ancora provano a sfilarci chilometri quadrati di neve, ghiaccio e roccia sulla sommità del Monte Bianco. E perché? Per intestarsi in via esclusiva la titolarità della montagna più alta delle Alpi. Sarà pure questione di grandeur, ma appare quanto mai inappropriata adesso che la Francia si presenta in Europa con le pezze al sedere. Si obietterà: è un depistaggio di Bayrou per evitare che i francesi puntino troppo i riflettori sulla crisi di Governo che sta per abbattersi sulla finanziariamente disastrosa condizione dello Stato francese. E che senso avrebbe avuto un attacco all’Italia per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica quando tutti i media in Francia non fanno che parlare delle sorti in bilico del Governo e della mozione di sfiducia che potrà farlo cadere il prossimo lunedì? C’è chi suggerisce che la faccenda sia personale. Macron non avrebbe per nulla digerito il successo in Italia di quella underdog di Giorgia Meloni e di tutto il suo caravanserraglio di brutti ceffi di destra, per non parlare del barbaro Matteo Salvini il cui primo peccato capitale è di essere amico di Marine Le Pen.

Tuttavia, l’interpretazione in chiave psicologica è suggestiva sebbene non regga alla prova dei fatti: troppo debole per suffragare una strategia di contrasto continuo di Parigi a ogni azione messa in campo da Roma nei rapporti internazionali. A nostro avviso, leggere il comportamento della leadership francese in termini di reazione, più o meno irrazionale, alla politica del centrodestra italiano è sbagliato. Non vi è nulla di isterico o di improvvisato nell’agire dell’Eliseo o dell’Hôtel de Matignon (sede del Governo). Ciò che si staglia all’orizzonte è, piuttosto, una delicatissima – e ambiziosa – partita egemonica sull’Europa, che vede il presidente Macron impegnato a giocarla nonostante i guai che ha in casa nel rapporto (pessimo) con la maggioranza del popolo francese. Anzi, proprio perché le cose vanno male nel suo Paese, Macron rischia il tutto per tutto provando ad accelerare sul fronte dei nuovi assetti continentali.

Cerchiamo di essere più chiari. È in ballo la costruzione di un blocco di Difesa europea, autonomo rispetto all’alleanza storica con gli Stati Uniti d’America. La questione ha occupato prepotentemente la scena dello sclerotizzato dibattito all’interno dell’Ue a seguito dei ripetuti inviti del presidente Usa, Donald Trump, agli europei di provvedere da sé stessi a difendersi dalla minaccia proveniente da Est e a sostenere con le proprie risorse economiche e strumentali la resistenza ucraina nella guerra contro la Russia. Allo scopo, il vertice della Commissione a Bruxelles ha varato un piano (“Readiness 2030) per sostenere finanziariamente il riarmo degli Stati membri dell’Ue. Al momento, sebbene si discuta se si debba andare nella direzione di una Difesa comune unificata o limitarsi a rafforzare la cooperazione militare già in essere tra i partner europei, ciò che appare certo è il mutamento degli equilibri nei rapporti interni all’Alleanza transatlantica, in particolare tra l’Europa e gli Stati Uniti.

Il cambio di scenario comporta la risposta a una domanda che non può più essere elusa: chi comanda nel nuovo assetto il cui baricentro si sposta nel Vecchio continente? Non certo la burocrazia di Bruxelles, che potrà pure fare la voce grossa quando si tratta d’ignorare la volontà dei popoli che subiscono il suo potere, ma non può fare altrettanto quando le chiavi degli arsenali sono saldamente nelle mani dei capi dei Governi nazionali. Il deludente stato del processo d’integrazione tra i Paesi europei rende irrealizzabile ogni ipotesi di condivisione comunitaria della leadership strategica in ambito Ue. La prospettiva più realistica prevede che sia una potenza nazionale a prendere la guida della Difesa comune. Da qui la candidatura “naturale” del leader francese, non senza delle obiettive ragioni pragmatiche.

La Francia è l’unico Stato dell’Unione dotato di una deterrenza nucleare autonoma (290 testate nucleari). Inoltre, è l’unica nazione del contesto Ue ad avere un seggio permanente, con diritto di veto, all’interno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Ha un’autonomia energetica rilevante grazie all’energia nucleare che è la principale fonte di produzione e consumo di elettricità. Viene prodotta da 57 reattori, per una capacità installata pari a 61,4 Gigawatt, che costituiscono un parco nucleare distribuito su tutto il territorio nazionale (fonte: Gruppo Edf). La deterrenza nucleare francese (la Force de frappe) è ispirata al principio di permanenza: continuità senza interruzioni, anche in tempo di pace. La copertura nucleare è assicurata, nella componente navale, da 4 sottomarini nucleari lanciatori di missili (SNLE), non rilevabili, con 16 missili balistici M51, ciascuno a testate multiple; nella componente aerea, le forze aeree strategiche (FAS) sono strutturate in due squadroni di cacciabombardieri multiruolo Rafale con dotazione di 54 missili.

È di tutta evidenza che Macron, fondando su dati di assoluta certezza, rivendichi il ruolo guida della Difesa europea. Non a caso, ha cominciato la sua personale campagna elettorale tra gli Stati membri, sia offrendo l’estensione dell’ombrello nucleare francese agli altri partner Ue, sia intestandosi il progetto dei “volenterosi” – in concorso con la Gran Bretagna che è fuori dal perimetro dell’Ue – per inviare truppe europee sul suolo ucraino onde garantire la sicurezza di Kiev dalle minacce future di Mosca. Epperò, se questa è la strada tracciata per l’avvenire della Difesa europea, perché Macron e i suoi attaccano sistematicamente l’Italia? Forse, la risposta più efficace è in un detto antico: “Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”. E il coperchio in questione, che manda all’aria i piani del diavolo francese, potrebbe rivelarsi quello scomodo partner italiano, con quell’underdog di premier che sta guadagnando stima, fiducia e consensi in ogni angolo del pianeta. Giorgia Meloni potrebbe rilevarsi una rognosa pietra d’inciampo per un Macron lanciato sulla strada della conquista egemonica della politica di difesa comunitaria che reca con sé anche quella della politica estera dell’Unione.

Meloni è, però, consapevole che il sistema-Italia, in particolare il comparto dell’industria della Difesa, non voglia accettare una subalternità istituzionalizzata al vicino d’Oltralpe. Ma quanto potrà resistere il suo “no” alla pressione crescente di Emmanuel Macron? È una brutta situazione, che rischia di portarci dritti in un vicolo cieco. Per uscire indenni da un simile incastro occorre una “mossa del cavallo”, un cambiamento strategico di tale portata da sparigliare i giochi e rimettere in asse i rapporti di forza con i cugini francesi. La soluzione è una e una sola: negoziare con Washington la cessione di una parte dell’arsenale nucleare statunitense attualmente allocato sul suolo italiano, presso le basi aeree di Ghedi e di Aviano. Giungere a un’intesa per il trasferimento di titolarità al governo italiano dell’uso di una parte dell’arsenale non è impossibile, anche alla luce dei patti stipulati tra Italia e Usa per le regole d’ingaggio nell’utilizzo delle armi nucleari con vettori statunitensi e italiani a decollo da basi situate nel nostro territorio – nome in codice del Trattato: Stone Ax (Ascia di Pietra).

Il parziale trasferimento, vigente il principio della condivisione nucleare in ambito Nato, aggirerebbe le clausole del Trattato di non-proliferazione nucleare, sottoscritto anche dall’Italia. Con una Germania che ha varato un piano di riarmo che in 12 anni potrebbe superare i 500 miliardi di euro, l’Italia non può finire ai margini di una costruzione della difesa comunitaria destinata a saldare, in proiezione egemone sul resto dell’Unione, l’asse franco-tedesco. Se non si hanno tanti quattrini da spendere – come non li ha l’Italia – e se non si vuole finire sotto lo scettro francese, bisogna farsi porcospino, magari d’acciaio, come saggiamente ha consigliato a qualcun altro (leggi: Ucraina), Ursula von der Leyen. Un’Italia con una decina di bombe nucleari in cascina non ribalterebbe le sorti del mondo, ma i sogni egemonici di Macron, sì. Se Donald Trump è davvero l’amico di Giorgia, come sovente dichiara di essere, e se davvero vuole disimpegnarsi dal quadrante europeo, ci dia una mano a non finire alla mercé dell’inquilino dell’Eliseo. In fondo, che una possibilità del genere non si materializzi è anche nel suo interesse. Non soltanto nel nostro.

Aggiornato il 03 settembre 2025 alle ore 10:14