Miracolo a Milano

Il sindaco di Milano, Beppe Sala, nel pieno della bufera giudiziaria che coinvolge la sua amministrazione, si è presentato in Consiglio comunale a dire che intende restare dov’è. Che è una pessima notizia per i milanesi, ma che fa tirare un sospiro di sollievo alla politica. Tutta, di sinistra e di destra. Spieghiamo perché. Il sinistra-centro di Elly Schlein ha acceso un cero a Sant’Ambrogio per la grazia ricevuta. Affrontare adesso una campagna elettorale sarebbe stato complicato per quello che di sconcertante sta emergendo dalle carte in possesso della Procura della Repubblica del capoluogo lombardo. Ciò a prescindere dalla fondatezza delle ipotesi accusatorie sulle condotte dei singoli personaggi raggiunti da avvisi di garanzia o da richieste di arresti. Quello che si capisce, oltre ogni ragionevole dubbio, della filosofia gestionale del sindaco Sala è la ferrea determinazione nell’escludere la cittadinanza dalla valutazione d’impatto sociale dei modelli urbanistici implementati. L’idea-forza del ceto dirigente meneghino è stata di ritenersi depositaria esclusiva della legittimazione a pensare al bene e per il bene dei governati, in totale assenza di momenti di confronto e di mediazione tra interessi confliggenti di cui sono portatori i diversi gruppi sociali (disomogenei economicamente) che compongono la comunità cittadina. E non solo.

É stato palpabile il fastidio del sindaco per le meccaniche che regolano il funzionamento della democrazia nell’amministrazione del territorio, al punto da suggerirgli di saltare nell’iter di approvazione delle delibere di giunta – a proposito di scelte urbanistiche – i passaggi istituzionali per l’acquisizione dei pareri dei consigli di zona, dei consigli municipali e, successivamente, il voto del Consiglio comunale ma scegliere di percorrere le vie brevi dell’accordo con la presidenza della potentissima Commissione paesaggio, con l’assessorato alla Rigenerazione urbana e con i manager dei colossi delle costruzioni, come ha bene spiegato Riccardo de Corato – ex vicesindaco di Milano con la Giunta Albertini di centrodestra, in quota Alleanza nazionale – in un’intervista rilasciata ieri l’altro al quotidiano La Verità. Ragione per la quale, il Partito democratico, principale supporter del sindaco Sala, avrebbe avuto non pochi problemi a tornare nell’immediato dagli elettori, incavolatissimi per come Milano sia stata stravolta dalle politiche della Giunta progressista, a chiedere di rinnovargli il mandato a governare.

Messa così, dovremmo essere indotti a credere che il centrodestra stia mordendo il freno per far crollare il già debole supporto che regge la poltrona del sindaco Sala e precipitarsi alle elezioni comunali. Invece, di là dalla protesta indignata resa a beneficio di telecamere, il centrodestra non si straccia le vesti per il Sala che si barrica nella stanza dei bottoni. Perché? Il motivo è semplice e disperante al tempo stesso: la destra non ha un candidato forte e credibile da mettere in gioco nell’immediato. Lo deve cercare tra teorie di vasi comunicanti nella lotteria delle cariche pubbliche, manuale Cencelli e bilancini da farmacista. Comunque, un candidato lo dovrebbe calare dall’alto, dal momento che non ha fatto nulla in questi anni per costruire una propria classe dirigente locale di spessore, che potesse naturaliter proporsi alla guida della città con un progetto convincente per la maggioranza dei milanesi. Questo non è un problema ma il problema della destra italiana: la mancanza di classe dirigente adeguata a gestire la complessità nell’amministrazione delle grandi città. Non è in ballo solo Milano. Ma se lungo la traiettoria delle metropoli, da Napoli a Milano, passando per Roma, Firenze, Bologna, oggi Genova, Torino, il centrodestra non tocca palla, una ragione di propria insufficienza ci sarà pure.

Non può essere tutto e sempre spiegato con il fattore antropologico, per il quale gli elettori di destra sarebbero meno inclini a recarsi alle urne preferendo occupare diversamente il tempo che dovrebbero dedicare al rito democratico delle elezioni. Per molti anni si è preferito scaricare la responsabilità della mancata formazione delle classi dirigenti locali sulla contrarietà del padre-padrone del centrodestra, Silvio Berlusconi, a dare spazio alla crescita di un personale politico qualificato all’interno delle organizzazioni partitiche della coalizione, preferendo il casting nel momento della scelta delle candidature territoriali. Il che in parte è vero. Un esercito di “improbabili” sono stati catapultati nelle elezioni locali, senza che avessero collegamento alcuno con i territori ma, nel proprio curriculum, esclusivamente l’amicizia o il favore del “lider màximo”. Una pratica deprecabile, che ha recato gran danno reputazionale al centrodestra.

Eppure, nonostante Berlusconi sia fuori dai giochi da un pezzo, la situazione non è cambiata. Né sotto la guida di Matteo Salvini, né sotto l’odierno comando di Giorgia Meloni. Segno che il problema non è di superficie ma ha radici profonde. Una classe dirigente politica non si produce per partenogenesi di un apparato partitico; è qualcosa che nasce e si sviluppa in quell’humus comunitario fatto di idem sentire, di condivisione culturale, ideale, valoriale, etica e di costumi, che si aggrega spontaneamente e si riconosce in una comune area di produzione di idee spazialmente circoscritta. Nasce e si sviluppa nelle comuni frequentazioni universitarie, nelle redazioni dei giornali, nei convegni accademici, agli eventi artistici, nei teatri, nella vita quotidiana dei corpi intermedi della società, nei luoghi di lavoro e di aggregazione sociale, negli ambiti del volontariato e della solidarietà, e anche in quelli di svago e d’impiego del tempo libero.

Non parliamo di masse oceaniche di gente ma di gruppi ristretti che, tuttavia, sono concepiti e si costruiscono come élite destinate alla funzione di governo delle comunità nelle quali sono inseriti. È grazie a questa strutturazione del gruppo di comando, che la sinistra ha favorito e praticato fin dai primi anni del Secondo dopoguerra, che si è avuto quel singolarissimo fenomeno politico per il quale la sinistra ha conservato il potere anche quando ha perso le elezioni politiche. Di converso, alla destra è stato sistematicamente impedito di avere un proprio terreno di coltura dove far crescere il proprio personale politico. Tale è stata l’essenza di quella politica di compressione della volontà popolare che è stata conosciuta con l’esotica espressione di “conventio ad excludendum” e che è consistita nella creazione di una sorta di cordone sanitario per sterilizzare la potenziale minaccia della crescita del consenso a partiti che avessero un qualche collegamento con il fascismo.

La ghettizzazione non avrebbe dovuto riguardare solo il livello parlamentare e delle amministrazioni locali ma estendersi a tutti i luoghi pubblici di gestione e di formazione delle classi dirigenti del futuro. La conduzione di Università, scuole, magistratura, giornali, istituzioni culturali, è stata inibita alla destra. La conseguenza è stata l’incapacità del centrodestra di realizzare il suo programma politico quando ha vinto il confronto elettorale, non avendo alcuna presa sull’apparato di controllo e gestione del potere rimasto saldamente nelle mani della sinistra. I capi comunisti, riconvertitisi in progressisti nella Seconda Repubblica, hanno dimostrato di aver introiettato alla perfezione gli insegnamenti di Gaetano Mosca e di Vilfredo Pareto sulla teoria delle élite. Ribadiamo: la mancata crescita di una classe dirigente di destra la si deve al muro che la sinistra ha eretto a difesa della propria egemonia culturale e per impedire che un humus di destra crescesse e si diffondesse all’interno del tessuto sociale. Allo scopo, lo spauracchio della patente di fascista da affibbiare a coloro che non si fossero allineati al pensiero del politicamente corretto è stato un potente strumento di contenimento e di deterrenza per condizionare le carriere e la vita professionale dei singoli individui.

Nondimeno, il gioco della sinistra a marchiare a fuoco il nemico politico con lo stigma del “fascista” continua, ancora oggi, a dare i suoi frutti avvelenati. Ora, però, che Giorgia Meloni ha dalla sua il consenso degli italiani deve trovare il coraggio di andare in fondo alla questione e porre le basi perché, nel tempo lungo, quel gap che c’è con la sinistra venga colmato. Diversamente, sarà difficile individuare figure di alto profilo organiche ai programmi e alle visioni di destra, antiprogressiste, conservatrici, tradizionaliste. Si dovrà ricorrere alle candidaturetecniche”, ai manager, agli “indipendenti”, ai “papi stranieri”, per mancanza di un’offerta propria di personale politico, competitiva. Il ligure Marco Bucci docet. E a Milano vi sarà sempre il rischio che morto (politicamente) un Sala, se ne faccia un altro.

Aggiornato il 23 luglio 2025 alle ore 09:58