Iran: game over

Ma chi l’ha detto che le bombe non possano essere un’opportunità? Chi l’ha detto che la guerra sia la tomba dell’umana speranza? Chi l’ha detto che sulle ceneri di un regime oppressivo non si possa costruire una nazione più libera, più forte e più coesa? Chi l’ha detto che tutte le lacrime versate siano di dolore e di disperazione? Chi l’ha detto che, per colpa di Donald Trump e di Benjamin Netanyahu, tra qualche giorno o tra qualche settimana saremo tutti morti e dell’uomo sulla Terra non resterà traccia? Noi non l’abbiamo detto e neanche mai pensato. Al contrario, siamo fermamente convinti, nell’ora del raid americano sull’Iran, operazione denominata Midnight Hammer (Martello di mezzanotte), che una prospettiva di pace in quell’area del mondo, per secoli martoriata da irriducibili inimicizie, sia possibile. Grazie alle bombe dello “zio Sam”. Sì, grazie alle bombe. Per decenni, Israele e l’Occidente liberale hanno vissuto nell’incubo della potenziale minaccia nucleare portata dall’Iran degli ayatollah. Non si poteva continuare in eterno a camminare sul filo del dubbio amletico: “Teheran, sta preparando l’atomica o no?”. Non si poteva consentire oltre a un regime violento e tirannico di essere il dominus e il faro del terrorismo internazionale antisemita e antioccidentale.

Non si poteva permettere che avesse un qualche seguito il disegno di legge, presentato al parlamento iraniano nel gennaio del 2021, che, una volta approvato, avrebbe obbligato i successivi governi di Teheran a cancellare Israele dalla carta geografica entro vent’anni e a operare per scacciare le forze americane dalla regione. Non si poteva lasciare una cricca di criminali, impadronitisi di una nazione erede di una civiltà millenaria, di agire indisturbata a destabilizzare il Medio Oriente attraverso dei “proxi”, cioè finanziando e addestrando bande di feroci terroristi fuori dei propri confini, in attesa di avere l’arma nucleare. E una volta fabbricata, sotto gli sguardi acquiescenti di un Occidente rincitrullito dal suo stesso veleno buonista, di mettere in pratica la soluzione finale: l’annientamento dell’ebreo ordinato dal Dio dei musulmani. La soluzione finale della questione ebraica (in tedesco: Endlösung der Judenfrage). Una roba già sentita, un déjà vu. Le bombe sganciate l’altra notte dallo zio Sam hanno centrato un obiettivo di gran lunga più esteso e più significativo della semplice distruzione dei siti industriali di FordowNatanz ed Esfahan, adibiti all’arricchimento dell’uranio. Gli ordigni piovuti dal cielo sulla terra degli Arii hanno fatto pulizia – ah! Quanto c’avevano visto lungo i futuristi che proclamavano, nel loro “Manifesto” del 1914, la guerra sola igiene del mondo – della principale minaccia ai pur faticosi tentativi di portare stabilità in un’area strategica per gli interessi planetari. I pacifisti nostrani, ripugnante zavorra del tempo presente, frignano perché, a sentire loro, non si dovrebbe esportare la democrazia con le bombe. E chi la vuole esportare la democrazia in Iran!

Questa è stata un’allucinazione ideologica che ha colpito i neoconservatori statunitensi tra la seconda metà dello scorso secolo e i primi del Duemila, riproposta in grande stile dai democratici di Barack Obama nella folle versione delle “Primavere arabe”, dei cui esiti nefasti noi italiani stiamo ancora pagando il conto. Le bombe possono costituire un’opportunità irripetibile per spingere le componenti “aperturiste”, interne al regime iraniano –che ci sono – a modificare gli equilibri di potere a favore di una linea più riformista e dialogante con gli interlocutori d’area di quella praticata con pugno di ferro dal clero dominante sostenuto dalla struttura para–statuale delle Guardie della Rivoluzione. La repubblica teocratica sorta nel 1979 non corrisponde alle istanze di modernizzazione e di libertà che la società civile iraniana, in larghi settori, manifesta. L’Occidente non potrebbe commettere errore più grande se mettesse tutte le articolazioni del potere iraniano sullo stesso piano e le rappresentasse come un unico blocco granitico. Il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica – i pasdaran – voluto fortemente dall’Ayatollah Ruḥollāh Khomeynī per difendere il regime da possibili colpi di mano interni, è cosa molto diversa dall’esercito iraniano.

E anche tra le sue schiere, i pasdaran sono altra cosa rispetto ai fanatici della milizia Basīj, una forza ausiliaria posta agli ordini dei Guardiani della Rivoluzione, che svolge una brutale attività di polizia morale per conto del regime. Si deve considerare che la stessa elezione, avvenuta a giugno del 2024, di Masoud Pezeshkian alla presidenza della Repubblica islamica dell’Iran, abbia rappresentato una salva d’avvertimento esplosa dai cittadini iraniani all’indirizzo del potere ultraconservatore della guida suprema dell’Iran, l’ayatollah Alī Khāmeneī. Pezeshkian è un medico di idee riformiste, di origine azera da parte di padre e curda da parte di madre; ha fama di essere contro la repressione violenta delle proteste operata dai guardiani della Rivoluzione e contro l’obbligo del velo per le donne. Non è molto, ma in un Paese soggiogato alle più spietate logiche oscurantiste, anche quel poco è sempre meglio di niente e può costituire un primo punto da cui partire nell’edificazione di una nuova società. Nel momento in cui le bombe americane hanno messo in fuga la guida suprema, non dovrebbe essere ignorata la possibilità che un moderato –rispetto al fanatismo dilagante nella classe dirigente iraniana – possa avviare il processo di graduale uscita dell’Iran dal perimetro ristretto del radicalismo religioso antiebraico e antioccidentale nel quale è sorto e vissuto il regime degli ayatollah. Quindi, nessun regime change, o analoga stupidaggine, quale diretta conseguenza dell’aggressione aerea israelo-statunitense ma consapevolezza occidentale di aver innescato un meccanismo di progressivo cambiamento del sistema politico iraniano, altrimenti inceppato. Dentro e fuori dall’Iran c’è un’opposizione al regime, ma essa si presenta frammentata e divisa sugli obiettivi da raggiungere e sui mezzi per farlo.

Non ha una figura carismatica – come nel 1979 fu quella di Khomeynī per rovesciare la monarchia e per dare luogo alla nascita di una repubblica teocratica – che possa unificare il flusso della protesta e indirizzarlo verso un comune bersaglio. Anche per questo motivo occorre che Netanyahu e Trump non forzino la mano con l’imporre al vertice dello Stato un personaggio a loro “gradito” per guidare un’ipotetica transizione della società iraniana verso non si capisce bene cosa. Ciò che adesso conta è di aver tagliato di netto gli artigli del drago. Non illudiamoci di potergli anche insegnare il galateo per sedere correttamente alla tavola della buona società. Cosa essere in futuro è questione che riguarda esclusivamente gli iraniani e nessun occidentale deve metterci becco. Ciò che avrebbero potuto fare – e stanno facendo – i campioni di un Occidente che non intende consegnarsi al declino e alla sconfitta si limita a ciò che l’Iran non dovrà essere domani e per sempre: una minaccia esistenziale per la nostra civiltà e per il popolo ebraico.

Adesso la palla è nel campo dell’Iran. Può mostrare di aver compreso la lezione, di prendere atto della realtà e di cominciare un graduale iter di avvicinamento alle condizioni di stabilizzazione dell’intera area mediorientale. Viceversa, può intestardirsi nella retorica della distruzione: può rispondere a Donald Trump attaccando civili e militari statunitensi presenti nella regione; può provare a ricattare il mondo attraverso la chiusura al traffico marittimo – quindi anche delle navi che trasportano petrolio e gas – dello Stretto di Hormuz. Significherebbe, tuttavia, condannarsi alla distruzione totale, perché darebbe agli Usa il pretesto di scagliargli addosso il più temibile arsenale bellico che vi sia sul pianeta. E nessuno, proprio nessuno – compresi l’amico Vladimir Putin e l’amico XI Jinping – oserà opporsi allo zio Sam, perché se Parigi vale bene una messa, Teheran non vale una guerra mondiale. La Terza, definitiva.

Aggiornato il 23 giugno 2025 alle ore 09:59