
Ogni anno, con implacabile ripetitività, siamo costretti a vivere l’insulso rituale degli esami di Stato della scuola superiore. Rituale perché ogni aspetto si reitera sempre eguale a sé stesso, generando una noia mortale. Insulso perché un tale esame – per come è strutturato – a tutto serve tranne che a provare la maturità dei ragazzi. In particolare, mi riferisco alla prima prova scritta che io mi ostino a definire ancora come il tema di Italiano, stante anche la circostanza benvenuta secondo cui il ministro Giuseppe Valditara intende accentuare il significato di una raggiunta maturità personale e umana, rispetto all’anodina neutralità di un esame di Stato. Si assiste infatti – ed è stupefacente come ogni anno si ripeta la medesima storia – al proliferare sui mezzi di comunicazione della solita caccia all’argomento che sarà oggetto della prova. E ci si sbizzarrisce perciò a ritrovare anniversari della nascita di questo scrittore o della morte di quel poeta, a rinvenire improbabili coincidenze storiografiche fra autori pur distanti per lingua e contenuti, a individuare estrose e originali prospettive letterarie e critiche.
Tutti – ma proprio tutti – si mettono di lena alla ricerca della traccia che sarà indicata dall’anonimo funzionario ministeriale e nascosta in una busta sigillata, prima di essere resa pubblica allo scopo di invitare i candidati a seguirla. A seguire che cosa? La traccia, si risponde in coro. Ma la traccia di che cosa? Di ciò che si vuole e si pretende che i ragazzi scrivano, dopo averla letta e compresa: si vuole e si pretende che i ragazzi scrivano e riproducano, magari con parole proprie, il pensiero altrui: quello del tale critico, del tal altro commentatore o del celebre scrittore. Perfetto esercizio escogitato per impedire che i ragazzi osino pensare con la propria testa, volendo invece si debbano limitare a sintetizzare ciò che altri hanno pensato e sulle cui tracce debbono muoversi. Quando va bene. Invece, quando va meno bene, i ragazzi spesso si contentano di scopiazzare a destra e a sinistra i giudizi dei critici alla moda che ai miei tempi erano Natalino Sapegno, Attilio Momigliano, Umberto Panozzo e che oggi per mia fortuna conosco pochissimo (ma immagino si vada da Franco Fortini ad Umberto Eco).
In definitiva, il nulla del pensiero in una testa di adolescenti che, evitando di ragionare, vengono invitati a scrivere e a riscrivere ciò che forse avranno appena letto e capito. E questa sarebbe maturità? Non credo. Altra cosa, e ben diversa, sarebbe invece se si assegnasse come tema non una traccia – quasi i ragazzi fossero consegnati a un fantasmatico destino di segugi – ma un’indicazione di pensiero, tanto più semplice quanto più profonda, senza alcun riferimento ad autori, a periodizzazioni storiografiche precostituite, a escogitazioni di critici letterari. Esempio: “Una passeggiata in campagna”. Tema da svolgere all’esame di quinta elementare, di terza media, di maturità: non importa sia il medesimo per tutti. Anzi, ancor meglio, perché potrà servire in modo comparativo a paragonare i diversi contenuti sviluppati dai ragazzi a seconda della diversa maturità (appunto!) raggiunta. I benpensanti diranno di tema troppo semplice e banale. Tuttavia le cose semplici spesso non sono affatto banali e anzi, se ben comprese e sviluppate, manifestano un’inusuale profondità che chiede soltanto di essere esplorata. Non a caso la riflessione teologica definisce Dio – l’oggetto immenso del pensiero, direbbe Georg Wilhelm Friedrich Hegel – come “il semplice”, per significare che la profondità inesauribile della divinità appare nei modi della più assoluta semplicità (si pensi al Dio bambino).
Per percepire Dio e la sua verità, insomma, non occorre una laurea in teologia o una ordinazione sacerdotale: basta la sensibilità per la semplicità del suo manifestarsi. Allo stesso modo – mutatis mutandis – invitare ai ragazzi a esprimere in forme razionali e corrette le emozioni, i sentimenti, i pensieri che la propria sensibilità sia capace di partorire a partire dal contatto con la natura, significa propiziare davvero il dispiegarsi della maturità esistenziale di ciascuno. E perché non invitarli, ancora, a commentare un emistichio di Giacomo Leopardi, il quale, rivolto a Nerina, ne Le ricordanze, annota “Ivi danzando”: che significa? Perché lo dice? Come si coniuga l’andare con la danza? E perché Nerina danza? E, soprattutto, chi sarebbe mai questa Nerina? Per saggiare la maturità dei ragazzi, occorre verificare se pensino e come pensino. Per farlo, nulla di meglio che invitarli a esercitare un pensiero critico autonomo e personale, attraverso indicazioni semplici – perché profonde – e che non si appiattiscano sul pensiero altrui. Oggi, le tracce rappresentano un invito all’assenza del pensiero: la scomparsa di ogni possibile maturità.
Aggiornato il 18 giugno 2025 alle ore 10:06