Il conservatore in tempo di guerra

Il conservatorismo ha due modalità: quella di pace e quella di guerra. Quando l’ordine sociale è stabile e sano, i conservatori si occupano di coltivare e custodire le istituzioni. Ma nei momenti di disordine, emerge un’altra forma di conservatorismo, che non si concentra più sulla preservazione ma sulla riforma. Donald Trump è un conservatore da tempo di guerra. Fin dalla sua prima campagna presidenziale, sostiene che l’America sia in declino e abbia bisogno di misure drastiche per recuperare la propria grandezza nazionale. Nei primi mesi del suo secondo mandato, ha puntato su tre politiche aggressive: deportazioni di massa, tagli tramite il programma DOGE e una riforma dell’università. Tutte e tre hanno scosso il panorama politico, provocando reazioni sia a destra che a sinistra. I moderati temono un eccesso di potere esecutivo; i progressisti parlano apertamente di “fascismo” e “autoritarismo”.

Entrambe le letture sono errate, ma colgono un punto essenziale: Trump sta usando la forza. La cultura americana è cambiata al punto che questi interventi – nessuno dei quali davvero senza precedenti – oggi appaiono radicali. Le élite si sono abituate a contesti regolati, normati, femminilizzati, dove anche un piccolo atto coercitivo genera panico. L’America colta fatica a immaginare l’uso della forza perché se n’è tenuta lontana per troppo tempo. I professori di Harvard non riescono neanche a concepire l’idea di espellere fisicamente un membro di MS-13. Per loro, una lettera di licenziamento o il taglio di un fondo di ricerca sono già percepiti come violenza. Trump, però, è un costruttore. Intuisce che nessuna riforma reale può avvenire senza scontro. La deportazione richiede rimozione fisica. Il taglio della spesa pubblica passa attraverso il licenziamento dei dipendenti federali. La restaurazione della verità nelle università implica un conflitto con le ideologie dominanti. Non si tratta di autoritarismo, ma di decisioni prudenti sotto pressione. È una leva, non un bastone. E serve a ricostruire istituzioni che, secondo lui, sono ormai corrotte.

In fondo, Trump ha ragione nel merito. Ma rischia di perdere sul piano della percezione pubblica. Anche se la retorica della sinistra ha perso parte del suo potere dimpatto, l’idea che queste politiche siano “crudeli” verso “vittime innocenti” sta facendo breccia. È un paradosso: né i membri di gang né le università d’élite sono davvero vittime. Ma l’opinione pubblica la costruiscono le élite. Ed è qui che si impone un cambio di strategia. Nell’epoca delle sensibilità fragili, la forza politica più efficace è quella che non si vede. La forza va usata, sì, ma con discrezione. Meno muscoli, più norme. Meno immagini, più astrazione. Occorre riscrivere le leggi, spostare gli incentivi, depersonalizzare l’azione pubblica.

Sulle deportazioni, ad esempio: giusto agire con decisione contro i criminali stranieri, ma inutile mettere in scena la cacciata di donne immigrate, anche se coinvolte nello spaccio. Meglio agire sui meccanismi economici: verifiche occupazionali, limiti ai servizi pubblici, controlli fiscali. Il modo più efficace per deportare in massa è spingere le persone a deportarsi da sole. Lo stesso vale per DOGE e per la riforma delle università: i cambiamenti dovrebbero essere attuati attraverso tagli, chiusure amministrative, modifiche nei finanziamenti. Non bisogna espellere uno studente di Tufts o vietare un libro su gender e identità: basta chiudere il rubinetto dei fondi pubblici. Depersonalizzare significa togliere al nemico la possibilità di costruire una contro-narrazione.

Sì, la destra potrà rammaricarsi di dover nascondere la forza. Trump ama gli incontri di wrestling e le immagini di potere. I conservatori, in genere, non hanno paura della forza, delle armi, della virilità politica. Ma la cultura del potere oggi parla un’altra lingua. E se si vuole riformare davvero, bisogna agire all’interno della cultura esistente. Questo non vuol dire indietreggiare. Significa colpire meglio. Con più silenzio. E, forse, con più successo.

(*) Tratto da Christopher F. Rufo

Aggiornato il 30 maggio 2025 alle ore 12:10