
Il comune di Genova è passato al centrosinistra al primo turno. A Ravenna, benché il risultato fosse ampiamente scontato, è andata allo stesso modo. Al Sud, i due capoluoghi di provincia dove si è votato – Taranto e Matera – vanno al ballottaggio. Ma tutto lascia presagire un’affermazione dei candidati della sinistra in entrambe le città, tra due settimane. Ora, dal punto di osservazione del centrodestra il risultato politico che emerge dalle urne ammette soltanto due reazioni, alternative tra loro: si può fare spallucce fingendo che non sia accaduto nulla o si può riflettere. Sarebbe preferibile, da parte dei vertici della coalizione che sostiene il Governo di Giorgia Meloni, la seconda opzione alla prima. Sebbene abbiamo più volte ribadito che l’Esecutivo Meloni non corresse rischi e potesse guardare con un buon grado di serenità alla riconferma per la prossima legislatura nel 2027, una domanda sul perché il centrodestra non riesca a fare breccia nell’elettorato quando in ballo vi è il governo locale dei territori è più che legittima. È doverosa.
Non basta dire che si tratta di dinamiche locali che non incidono sugli orientamenti generali dell’elettorato: è una giustificazione fin troppo banale. Il dato allarmante è il ripresentarsi, anche con la Meloni, del peccato originale del centrodestra. A fronte di leadership nazionali carismatiche, fatta eccezione per alcune realtà leghiste del Nord, non esiste una classe dirigente intermedia nei partiti che compongono la coalizione che sappia dare buona prova di amministrazione. Almeno non tale da suscitare negli elettori quella dose di entusiasmo sufficiente a farli tornare alle urne per esprimere con il voto il proprio giudizio favorevole. Già, perché ciò che emerge dal dato elettorale è il nesso causale che vi è tra il calo dell’affluenza e la sconfitta del centrodestra. La scorsa domenica e lunedì ha partecipato al voto complessivamente il 56,32 per cento degli aventi diritto. Quando, nel 2022, alle politiche ha trionfato il centrodestra, il dato dell’affluenza è stato del 63,91 per cento per la Camera dei deputati e del 63,81 per cento per il Senato (dal conteggio sono escluse le circoscrizioni estere, la Valle d’Aosta e il Trentino Alto Adige relativamente all’affluenza per il Senato).
Da qui un primo elemento oggettivo che attiene al comportamento del blocco sociale di riferimento del centrodestra: l’elettorato manda un segnale di disapprovazione ai suoi rappresentanti non trasmigrando nel campo avverso ma spostandosi nell’area dell’astensione. Al contrario, la sinistra, che è storicamente più strutturata nella forma partito e ha maggiori ramificazioni territoriali grazie a una massiccia presenza nei corpi intermedi della società, può contare su uno zoccolo duro di partecipanti alle competizioni elettorali che è destinato a fare la differenza in positivo quando crolla il numero dei votanti. Ciò detto, occorre domandarsi il perché di un tale deficit a destra. Bisogna ammetterlo: il compianto Silvio Berlusconi, pur con i tanti meriti che ha avuto, di certo non è stato immune dal commettere errori. Forse, quello più grande è stato di valutare che l’offerta politica potesse essere garantita a tutti i livelli istituzionali dall’immagine del leader nazionale. Come se il suo carisma, la sua genialità, la sua notorietà, potessero trasferire consenso alla catena organizzativa discendente, in forza di una bizzarra interpretazione della proprietà transitiva.
Purtroppo, sembra che neanche Giorgia Meloni sia riuscita a correggere l’errore. Sebbene lei stesse reggendo egregiamente la guida della Nazione, ciò non è bastato a convincere gli elettori a votare i candidati locali del centrodestra, per così dire, “sulla fiducia”. La gente comune chiede di essere guidata a livello locale da persone di cui riconosca il valore e la competenza. Persone che abbiano una preparazione appropriata per amministrare la cosa pubblica, certificata da una storia personale verificabile. Ma l’idealtipo weberiano non lo si trova sui banchi del mercato. Il candidato migliore – quello più adatto a ricoprire la funzione per la quale concorre – dovrebbe aver compiuto un percorso di formazione politica; dovrebbe essere stato tra la gente sempre; dovrebbe essere stato uno di loro, in grado di comprenderne i bisogni. Un candidato che avesse contezza di dove mettere le mani e di cosa fare, una volta eletto, per soddisfare quelle istanze. Il personaggio calato dall’alto, preso sulla base di un casting, il personaggio-immagine ma con poca sostanza non è credibile e non è creduto.
Dove sono finite le scuole di partito che formavano i quadri dirigenti e li preparavano a governare la complessità dall’interno delle istituzioni pubbliche? In questi trent’anni la responsabilità più grande del centrodestra è di aver affidato la gestione dei territori ai capibastone del posto, avallando di fatto quella insana equazione del potere in base alla quale, fatto salvo il voto per il capo assoluto e per i suoi prescelti alle elezioni nazionali, a livello locale sarebbe stato affare dei capataz gestire la torta della rappresentanza politica. È stata la consacrazione del sistema clientelare, che, alla lunga, genera più scontento rispetto al consenso (interessato) che crea.
Altro dato che deve allarmare i vertici del centrodestra riguarda l’aspetto sociologico del fenomeno di disaffezione verso i propri candidati. Non è vero che la sinistra vinca nelle grandi città mentre la provincia sarebbe appannaggio della destra. Una dettagliata analisi del voto di ieri l’altro mostrerebbe come anche in piccole realtà, del Sud come del Nord, i candidati progressisti hanno prevalso. Epperò vero che non si debba buttare la croce addosso ai soli quadri locali del centrodestra. L’autocritica dovrebbe riguardare anche alcuni esponenti di Governo e, più in generale, la capacità dell’Esecutivo di rispondere efficacemente alla domanda di rappresentanza di interessi specifici, formulata dalla propria base elettorale. Va più che bene il successo internazionale che sta riscuotendo la Meloni. Ed è un grande risultato che vi sia apprezzamento degli investitori esteri per la tenuta dei conti pubblici. Ma il cittadino che vota centrodestra si domanda: come la mettiamo con la bolletta del gas che mi è aumentata? E ancora: se la tassazione scende, stando a quanto sostiene il Governo che ho votato, com’è che non ce la faccio ad arrivare alla fine del mese? Domande legittime che attendono risposte concrete e oneste.
Si obietterà: non ci sono i soldi per fare tutto. D’accordo, però ci sono cose che non richiedono particolari esborsi ma che necessitano soltanto di una ristrutturazione organizzativa, come ad esempio l’efficientamento della macchina della Pubblica Amministrazione, in particolare della Sanità. Perché non lo si fa? Cosa impedisce di produrre riforme funzionali a modernizzare l’organizzazione dello Stato? L’elettore queste risposte se le aspetta. E quando non arrivano, lui lancia segnali che vanno colti; suona la campana dell’ultimo giro. A guardare in faccia, uno ad una, i vertici del centrosinistra ci si rende conto di quale compito storico gravi sulle spalle dei leader del centrodestra: tenere i progressisti lontani dal Governo della Nazione. Tuttavia, non ci si può cullare sugli allori del buon gradimento goduto dalla Meloni presso l’opinione pubblica. Occorre che il centrodestra dia un chiaro segnale di ricezione del messaggio inviatogli dall’elettorato e ponga rimedio a ciò che non va. A breve, con il turno autunnale delle regionali, avrà la possibilità di farlo. Meloni e soci facciano le scelte giuste. Un’altra mazzata nelle urne potrebbe fare molto più male di quanto lo abbia fatto quella buscata domenica scorsa. Sarebbe opportuno evitarlo, non credete?
Aggiornato il 29 maggio 2025 alle ore 09:53