Cari tuttologi, giù le zampe da Leone XIV

Mai avremmo voluto partecipare al desolante teatrino che i media hanno allestito per spiegare al mondo il pontificato che verrà del neo eletto Leone XIV (al secolo l’agostiniano Robert Francis Prevost, primo papa statunitense della storia della Chiesa). Ma vi siamo trascinati per i capelli a causa delle troppe stupidaggini che sentiamo proclamare con arrogante sicumera dai soliti noti “tuttologi”. Delle castronerie udite, quella più inascoltabile di tutte riguarda l’attitudine progressista” del nuovo Papa. I “dottiopinionisti l’avrebbero desunta dalla scelta del cardinale Prevost di chiamarsi Leone XIV, in omaggio a un suo predecessore, Leone XIII (Vincenzo Gioacchino Pecci), che, sempre ad autorevole giudizio dei sullodati commentatori, sarebbe un campione di progressismo ante litteram. Lo attesterebbe il fatto che questi sia stato l’autore, alla fine del XIX secolo, dell’Enciclica Rerum Novarum, documento destinato a incardinare il cattolicesimo romano nel solco di quella che sarà la dottrina sociale della Chiesa.

Quindi, l’attuale pontefice sarebbe in odore di progressismo perché lo sarebbe stato il predecessore a cui egli intende ispirare il suo magistero? Siamo alla follia generata da una monumentale ignoranza. Papa Leone XIII un riformista? Si sono bevuti il cervello? Cristo santo, prima di sputare sentenze a vanvera studiate, leggete cosa è scritto nei documenti, non parlate per sentito dire, non turlupinate l’opinione pubblica con i vostri indecenti analfabetismi culturali. E poi, cos’è questa buffonata di appiccicare su Leone XIII l’etichetta dell’illuminato che avrebbe affrontato la questione sociale quale atto più significativo del suo pontificato? Tutto il resto, lo ignoriamo? Leone XIII ha scritto – durante il suo lungo regno durato dal 20 febbraio 1878 fino alla morte il 20 luglio 1903 – ben 86 encicliche attraverso le quali ha consolidato, in pieno spirito tradizionale e conservatore, il ruolo e la funzione della Chiesa in un tempo di grandi sconvolgimenti politici, economici e sociali. Parlare di lui ponendolo esclusivamente in relazione con il tema della condizione operaia è come osannare i Beatles per aver cantato Yellow Submarine misconoscendo tutta la produzione discografica realizzata dal gruppo di Liverpool.

La risonanza sociale che ha avuto la Rerum Novarum, pubblicata il 15 maggio 1891 – pari solo alle definizioni conciliari – è dovuta alla circostanza che la questione operaia che essa affronta sia stata dibattuta a tutti i livelli nel corpo dell’ecumene cattolica per tutto il Novecento. L’enciclica in qualche misura individua una terza via tra il propagare dell’ideologia marxista e la stridente disuguaglianza che un capitalismo industriale tardo ottocentesco estremamente aggressivo radicava tra le classi abbienti della società del tempo e il proletariato. Per usare le categorie del linguaggio contemporaneo, l’indirizzo dato dal papa mira a stabilire una coesione sociale pur nella conferma delle differenze di classe. Il documento presenta una forte adesione al rilancio dell’azione di raccordo tra il mondo imprenditoriale e la classe operaia che viene assegnata ai corpi intermedi della società, in particolare all’associazionismo e alle corporazioni delle arti e dei mestieri la cui presenza nella società Leone XIII vorrebbe vedere rafforzata. Il pontefice denuncia il rischio che la questione operaia divenga monopolio delle organizzazioni della sinistra. Per impedirlo, indica quale soluzione alternativa la creazione di sodalizi di operai cattolici. Il messaggio è messo in chiaro nell’enciclica: “È opinione comune, però, confermata da molti indizi, che (le associazioni dei lavoratori, ndr.) il più delle volte sono rette da capi occulti con organizzazione contraria allo spirito cristiano e al bene pubblico: costoro col monopolio delle industrie costringono chi rifiuta di accomunarsi seco a pagar caro il rifiuto. In tal stato di cose, gli operai non hanno che due partiti: o ascriversi a società pericolose alla religione o formarne di proprie e unire così le loro forze per sottrarsi francamente da sì ingiusta e intollerabile oppressione”.

C’è qualcosa di profetico nelle parole del pontefice: egli ha individuato, con largo anticipo, quel virus mortale che il nostro tempo storico ha conosciuto sotto l’accattivante nome di “consociativismo”. Niente male per un papa che l’odierna “Madre Ignoranza” vorrebbe forzosamente collocare nel Pantheon del progressismo. Il papa Pecci non attacca l’accumulazione capitalistica della ricchezza ma individua nel giusto compenso del lavoro salariato la strada maestra per trasformare i proletari in proprietari di beni e risparmiatori. La giustizia di classe, nella previsione leonina, trova sbocco nella più equa distribuzione di quella parte della ricchezza che la borghesia capitalista produce ma che esonda dal soddisfacimento dei bisogni dei produttori nella tenuta del legittimo rango sociale occupato all’interno della comunità. Leone XIII ha un’idea classista della società. Lo spiega nell’enciclica Quod apostolici numeris del 28 dicembre 1878. Per rendere più esplicita la sua avversione alle ideologie egualitarie – che generate dall’Illuminismo e dalle pulsioni rivoluzionarie settecentesche del Terzo stato vengono drenate e rielaborate dalle correnti di pensiero socialiste e comuniste a sostegno delle istanze egemoniche di un nuovo soggetto collettivo politico-economico: il Quarto stato – Leone XIII cita l’ordine gerarchico su cui si fonda la Chiesa, immagine speculare del regno dei cieli.

Come in paradiso vi sono cori di Angeli distinti tra loro e gli uni soggetti agli altri, la Chiesa ha stabilito vari gradi di ordini di modo che non tutti siano Apostoli, non tutti Pastori, non tutti Dottori in ossequio alla volontà di Dio che ha creato l’uomo nella cui discendenza non sarebbero stati tutti uguali, se non davanti ai suoi occhi. La stessa organizzazione sociale gerarchizzata è il prodotto della volontà divina, cioè di: “Colui che creò e governa ogni cosa, nella sua provvida sapienza dispose che le infime cose per via delle mezzane, e le mezzane per via delle altissime arrivino ciascuna al suo fine”. Se volessimo appiccicare un’etichetta al pensiero leonino sarebbe quella affine alle teorie organicistiche della società, che non è certamente una concessione all’ideologia progressista.

Cionondimeno, non si può affermare che il papa fosse orientato a benedire l’ideologia liberale. Al contrario, la nega in radice partendo da una ridefinizione del concetto di libertà. Attenzione, però: sempre a stare alle categorie del linguaggio contemporaneo, la critica di Leone XIII al liberalismo non è da sinistra, ma da destra. Non sono gli illuministi a ispirarlo, quanto piuttosto il tradizionalismo cattolico di un Juan Donoso Cortes, anch’egli seguace di Sant’Agostino come l’attuale papa. L’enciclica Libertas del 20 giugno 1888 è uno spietato atto di accusa al liberalismo che trasforma libertà in licenza. Esso è così descritto da Leone XIII: “Grandissimo purtroppo è il numero di coloro che imitando Lucifero, da cui uscì quell’empio grido, io non servirò, sotto nome di libertà vogliono un’assurda e pretta licenza: e siffatti sono i seguaci di quel partito sì diffuso e potente, che dalla libertà preso il nome, si chiama liberalismo”. Ma Leone XIII è anche colui che affronta il tema del rapporto ragione e libertà con un’acutezza intellettuale tale da far scolorire le raffinate meditazioni teologiche di un Benedetto XVI.

L’incrollabile avversione di Leone XIII alla democrazia che “lasciata all’arbitrio del maggior numero, è facile via a tirannidi”; al principio di sovranità assegnata al popolo e alle istituzioni che rimandano a un pensiero progressista e laico, richiama l’implacabile lotta alla Massoneria speculativa che vide in lui il suo più ostinato portabandiera. In proposito, si ricorda l’enciclica Humanum genus del 20 aprile 1884, espressamene dedicata alla condanna del relativismo filosofico e morale della massoneria. Ma la produzione antimassonica di papa Pecci è ben più vasta. Secondo lo storico Aldo Alessandro Mola, essa consta di 118 testi ufficiali tra cui: 30 encicliche e lettere apostoliche, 30 allocuzioni e discorsi, 15 documenti di Curia, oltre a 20 lettere di protesta per la decisione del Comune di Roma, appoggiata dal Governo italiano, di erigere a Campo de’ fiori una statua a Giordano Bruno (A.A. Mola, Storia della Massoneria dalle origini ai nostri giorni, Bompiani, 1992).

Molto vi sarebbe da dire sul pensiero leonino riguardo alla partecipazione dei cattolici alla vita politica, alla separazione dello Stato e della Chiesa e alla perdita della temporalità dello Stato Vaticano, ma non è questa la sede. Qui occorre solo rivolgere al nuovo papa, Leone XIV, l’unica domanda che abbia un senso: quanto del suo omonimo predecessore ci sarà nel nuovo pontificato? E la si pianti con la storia del Prevost più progressista o più conservatore perché, quando si parla di papi, una tale distinzione non ha alcun fondamento di realtà. È piuttosto materia da bar dello sport che, portata all’attenzione del grande pubblico da inaudibili tuttologi, disorienta la gente comune. Che corre il rischio di prenderli sul serio.

Aggiornato il 12 maggio 2025 alle ore 11:16