Quando la burocrazia crea finzioni catastali e le trasforma in gettito fiscale, ignorando la realtà dell’abitare e colpendo la proprietà dei cittadini
Esiste un limite oltre il quale il potere pubblico smette di essere amministrazione e diventa intrusione. L’ordinanza n. 28420 del 27 ottobre 2025 della Corte di Cassazione lo attraversa senza esitazione: stabilisce che l’esenzione Imu spetta solo se la casa è una sola unità catastale, e non importa se, nella vita reale, essa sia composta da due unità contigue utilizzate come un’unica abitazione. Il pronunciamento non tutela la realtà: tutela il registro.
Il caso è semplice. Un contribuente vive in due appartamenti adiacenti, unificati di fatto, utilizzati come un’unica dimora. Per il giudice di primo grado e per la Corte d’appello, l’esenzione spettava: la norma, introdotta con la legge di bilancio 2020, parla infatti di immobile “iscritto o iscrivibile” come unità unica. Una formulazione apparentemente ragionevole. La Cassazione, invece, la svuota: “iscrivibile” non vuol dire “unificabile” né “unità di fatto”, ma “già sottoposto a procedura formale di unificazione catastale”. Finché il catasto non ha messo il suo timbro, per lo Stato non abiti in una casa, ma in due.
È questo il punto centrale: il potere pubblico non osserva ciò che esiste, rileva ciò che ha deciso di classificare. La vita domestica, con le sue scelte e con la sua evidenza, non vale nulla: conta solo la rappresentazione registrata. E se la rappresentazione è in contrasto con la realtà, la realtà è sacrificabile.
Questa impostazione non nasce dal nulla. L’Ici definiva l’abitazione principale come il luogo della dimora e della residenza: una definizione che partiva dalla vita. Con l’Imu, introdotta nel 2011 e poi consolidata nella legge n. 160 del 2019, il paradigma cambia radicalmente: non conta dove vivi, conta come sei incasellato. La norma non rileva il mondo: lo ricrea secondo il proprio schema.
La parola “iscrivibile” incarna siffatta deviazione. Sembra indicare un’apertura; in pratica serve a una sola funzione: evitare che l’esenzione cada quando l’accatastamento unico è già avviato. Non riconosce l’unificazione reale, ma solo quella conforme alle procedure. È una finestra teorica che si apre su un muro pratico.
Il cittadino può abbattere tramezzi, unire stanze, creare un’unica casa. Può costruirci una famiglia, viverci una vita intera. Nonostante ciò, se non compie l’atto rituale dell’unificazione catastale ‒ con i relativi oneri ‒ la fiscalità lo ignorerà.
La sua casa non è ciò che egli abita: è ciò che l’apparato pretende di vedere. Una punizione travestita da tecnicismo. In tal modo l’erario ottiene un doppio vantaggio. Aumenta la base imponibile e, allo stesso tempo, costringe il proprietario a piegarsi alla liturgia catastale. La proprietà non è più una garanzia: è un adempimento. L’imposta non misura ricchezza: misura allineamento.
La logica è trasparente: la casa, da luogo vissuto, diventa un dato amministrativo; chi la abita si muove non più dentro lo spazio reale, bensì dentro la griglia classificatoria dell’apparato. La norma impone questa torsione, la giurisprudenza la consolida, e l’intero sistema finisce per privare l’abitare della sua verità concreta, sostituendola con un formalismo autoritario.
La scena sembra uscita dalla penna magistrale di Luigi Pirandello: l’identità della casa, come quella delle persone, non coincide con ciò che è, ma con ciò che l’autorità decide che appaia. Come il protagonista di Uno, nessuno e centomila, che scopre di moltiplicarsi in maschere imposte dagli altri, anche l’abitazione unificata si frantuma in identità catastali che ne cancellano la natura vissuta.
Le parole degli Ermellini sono esemplari: “Un’inequivocabile limitazione dell’agevolazione ad un’unica unità immobiliare” e il rifiuto assoluto di estenderla “ad ulteriori unità contigue, di fatto unificate”. Non è perizia tecnica: è la scelta di referire la finzione alla realtà, la forma al fatto.
Il principio riaffermato dagli stessi non è un inciso marginale. Disegna un mondo in cui la libertà del cittadino vale solo se coincide con la compilazione amministrativa. La casa, simbolo per eccellenza dell’autonomia, diventa così un bene che non appartiene più a chi la vive, ma a chi la definisce.
Un potere che pretende di stabilire dove vivi non esercita fiscalità: esercita controllo. Se riconosce la tua casa solo quando coincide con i suoi moduli, non ti sta chiedendo un contributo: ti sta intimando obbedienza. E quando un sistema normativo normalizza la negazione dell’evidenza pur di preservare la propria costruzione formale, non sta applicando un’imposta: sta costruendo un’abitudine alla subordinazione.
La decisione del giudice di legittimità non nega il diritto alla casa: nega la realtà della casa. Stabilisce che essa esiste solo se certificata, solo se la sua immagine coincide con il dato catastale. Questo è il centro della questione: un’amministrazione che non si limita a governare, la quale pretende invece di stabilire che cosa esiste.
Da qui discende il resto: un’impostazione simile non protegge l’abitazione principale, la svuota. Ciò che dovrebbe essere un diritto elementare diventa una concessione, regolata più dai vincoli amministrativi che dalla vita reale. La casa vissuta arretra; avanza la casa registrata.
In una società aperta con un ordinamento sano, lo spazio privato rappresenta un limite invalicabile per il potere. Qui, invece, accade il contrario: l’autorità misura la propria forza dalla capacità di ridefinire ciò che appartiene ai cittadini. E quando può stabilire che cosa è tuo, può anche sottrartelo con la stessa disinvoltura.
È in questo quadro che l’Imu ‒ il prelievo più arrogante e predatorio della fiscalità italiana ‒ rivela ancor di più la sua vera natura. Non richiama ricchezza: impone obbedienza. La casa non vale per ciò che custodisce e per ciò che rappresenta nella vita delle persone, ma per come appare nel catasto. Un apparato che pretende di decidere cos’è la tua dimora non amministra: occupa. E una proprietà ridotta a una scheda catastale non è un diritto, è in definitiva un territorio trattenuto e restituito come tolleranza temporanea, non come libertà.
Aggiornato il 17 novembre 2025 alle ore 10:15
