Non è il suolo a finire, è la libertà a sparire

Dietro la retorica del consumo di suolo si nasconde un’urbanistica punitiva e un potere che teme la libertà di trasformare.

Nel 2024 in Italia sono stati coperti da nuove superfici artificiali 83,7 km² di territorio, con un incremento del 15,6 per cento rispetto all’anno precedente. Il dato, riportato nell’ultimo rapporto pubblicato dal Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa), dal titolo: “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici”, è stato subito accolto con toni allarmistici. Ebbene, non è il suolo a finire: è invece la libertà ad essere soffocata da una narrazione che criminalizza lo sviluppo.

Dietro l’espressione “consumo di suolo” si cela infatti un concetto fallace. Il suolo non viene consumato come un bene che scompare, bensì trasformato e riutilizzato per rispondere ai bisogni mutevoli della società. Il problema non è che si costruisce troppo, piuttosto che si costruisce male quando lo Stato pretende di dirigere ogni scelta. La vera emergenza non è quindi ambientale, è politica: un’urbanistica che diffida dell’iniziativa privata e considera l’attività edificatoria una colpa da espiare.

A conferma di quanto questa narrazione sia più ideologica che reale, bastano i numeri dello stesso Ispra. Le nuove coperture artificiali – oggi pari al 7,17 per cento del territorio nazionale – comprendono infrastrutture, impianti, logistica, data center, fotovoltaico e opere pubbliche. Persino l’istituto ammette che l’86 per cento del nuovo consumo è “reversibile”, cioè modificabile o recuperabile. Ma anche questa distinzione serve a ribadire il primato del potere pubblico nel concedere o negare libertà d’uso, come se la proprietà non fosse un diritto ma una licenza temporanea.

Ed è proprio su questo terreno di contraddizioni che la retorica ambientalista mostra la sua incoerenza più evidente. Ad esempio, l’uso del suolo per i pannelli solari, quadruplicato in un anno (da 4,2 a oltre 17 km², dei quali l’80 per cento su superfici precedentemente agricole), dimostra come ciò che è vietato al cittadino diventi improvvisamente virtuoso se promosso dallo Stato. Prova ne sia che, quando la copertura serve a obiettivi “verdi”, la stessa occupazione del territorio viene esaltata; quando invece nasce dall’iniziativa privata, viene immediatamente condannata. Dunque, non è l’uso del suolo in sé a essere messo sotto accusa, quanto chi lo decide. In sostanza, quando è lo Stato o l’Unione europea a imporlo, è “transizione”; quando è un privato, è “consumo”.

Il dirigismo ambientale assume così la forma di un moralismo urbanistico, che non tutela ma blocca. Blocca in particolare la costruzione di abitazioni, accrescendo i prezzi e aggravando la crisi abitativa; impedisce la creazione di spazi produttivi, rallentando la crescita; frena la modernizzazione delle città, rendendole più diseguali. L’Italia, dove ogni trasformazione deve superare una selva di vincoli e pareri, ha fatto della pianificazione un’ideologia.

A fronte di ciò, occorre ricordare che il progresso umano non nasce da un disegno imposto dall’alto, ma dalla libera iniziativa di chi osa innovare. Le società aperte si sviluppano perché lasciano spazio alla sperimentazione, agli errori e ai successi spontanei. Dove tutto è pianificato, invece, si perde la capacità di adattarsi: il sistema diventa rigido, inefficiente, statico.

È pure necessario rammentare che la libertà economica rappresenta la forma più efficace di responsabilità sociale. Quando le scelte di trasformazione dipendono dall’incontro tra domanda e offerta, le risorse vengono impiegate nel modo più utile e produttivo. Diversamente, qualora a decidere sia invece un apparato politico o burocratico, la distribuzione diventa arbitraria e genera spreco. Il suolo non fa eccezione: più libertà significa più cura, più vincoli significano abbandono.

Il paradosso è che molte aree “protette” restano abbandonate, degradate, inutili. Restituirle a una funzione produttiva o abitativa non significa distruggerle, ma valorizzarle. La vera sostenibilità nasce dalla libertà di adattare lo spazio alle esigenze umane, non dal divieto generalizzato.

Del resto, le città antiche lo avevano compreso meglio di noi. Roma, scavando acquedotti e cunicoli per chilometri, non distruggeva: serviva. Non era un potere che imponeva, ma un sapere che si adattava. Seneca ammoniva che: “Nihil magis decet potentiam quam clementia”, nulla si addice più al potere della misura. E Ovidio ricordava che: “Gutta cavat lapidem non vi sed saepe cadendo”, il progresso non impone, ma avanza con costanza.

Oggi, invece, si invoca un’Europa che pretende “suoli sani” come se la salute della terra fosse un indice burocratico da riportare in tabella. È quanto riporta la nuova direttiva europea sul suolo, approvata il 23 ottobre 2025, che introduce un quadro comune per monitorarne la salute e contrastarne il degrado. È l’ennesima tappa di un’idea pericolosa: che la libertà individuale sia un rischio da contenere.

Il vero danno, in definitiva, non è il cemento, è la paralisi normativa. È l’idea che l’ordine nasca dal divieto e non dalla responsabilità, la paura della trasformazione che, in nome della tutela, produce solo immobilismo. Come nel deserto infuocato descritto da Dante, dove “piovean di foco dilatate falde”, un paesaggio immobile, senza vita, governato dal divieto.

Lì dove tutto è fermo, la vita si spegne. La libertà, invece, è movimento, adattamento, scelta. Sotto i nostri piedi non sta finendo il suolo: sta finendo la libertà di usarlo. Sta a noi decidere se scavarla o soffocarla.

Aggiornato il 27 ottobre 2025 alle ore 10:04