
La scelta del giudice acclamata dalla sinistra riduce autonomia e flessibilità, penalizzando lavoratori e consumatori
Nel cuore dell’estate agostana 2025 il Tribunale di Milano ha emesso un’ordinanza che obbliga Glovo, il noto colosso del food delivery, a rivedere le modalità del “bonus caldo”, già introdotto e sospeso dall’azienda nei mesi scorsi. Secondo i giudici, il contributo va applicato a temperature più basse (25 gradi anziché 32) e deve essere accompagnato da dispositivi di protezione individuale: borracce termiche, creme solari, occhiali, cappellini, persino sali minerali. Una misura salutata con entusiasmo dalla sinistra e dai sindacati, che hanno parlato di “riconoscimento storico dei diritti dei rider”. La vicenda è emblematica.
Un’impresa privata, in un settore fortemente competitivo, aveva ideato un meccanismo di incentivo: pagare di più chi sceglieva di lavorare in condizioni difficili, come le giornate di caldo estremo. Si trattava in pratica di un tipico strumento di mercato: il rischio o il disagio vengono remunerati con un compenso superiore, e sta al singolo lavoratore decidere se accettare o meno. È lo stesso principio che regola i turni di notte, il lavoro nei giorni festivi o le mansioni in contesti più gravosi.
In questo caso, però, ciò che in altri settori appare come una normale applicazione della logica contrattuale è stato trasformato in scandalo. Sin dal lancio del “bonus caldo”, i sindacati – dalla Cgil all’Usb – hanno prima bollato l’iniziativa come una “monetizzazione del rischio”, giudicandola “inumana” perché, a loro dire, spingeva i lavoratori ad affrontare condizioni pericolose in cambio di pochi centesimi; in un secondo momento hanno chiesto apertamente l’intervento della magistratura, trasformando una questione di libera scelta individuale in un tema da regolamentare dall’alto.
Poi, quando la decisione dei giudici è arrivata, imponendo all’azienda spagnola di consegne a domicilio di rivedere la misura e di abbassare la soglia di temperatura per l’attivazione del contributo, la politica si è immediatamente allineata. Il Partito Democratico ha presentato l’ordinanza come un passo avanti verso una “cassa clima” nazionale, mentre il Movimento 5 Stelle l’ha salutata come una vittoria dei diritti dei rider. In altre parole, ciò che era nato come strumento di mercato, liberamente accettabile o rifiutabile da ciascun lavoratore, è stato ribaltato e incorniciato come conquista sociale.
Il copione è ormai collaudato: prima la denuncia sindacale, poi l’intervento dei magistrati e infine il plauso della politica. Così, ciò che nasce dal libero scambio viene sistematicamente delegittimato, al contrario la coercizione statale viene celebrata come l’unica vera tutela. Si tratta però di una protezione illusoria: riduce lo spazio della contrattazione, irrigidisce i rapporti di lavoro e, alla lunga, finisce per penalizzare proprio coloro che pretende di proteggere.
Ebbene, c’è tuttavia da chiedersi chi venga davvero tutelato. I rider hanno scelto liberamente la loro attività. Nessuno li costringe a pedalare sotto il sole a 35 gradi. Possono rifiutare le consegne, spostarsi su altre piattaforme, cambiare occupazione. È proprio detta libertà di scelta la migliore garanzia contro lo sfruttamento. Nel mercato, chi non trova soddisfacente un’offerta la rifiuta. E se un’azienda non riesce ad attrarre lavoratori, deve migliorare le proprie condizioni, pena la perdita di manodopera e di clienti. È il meccanismo della concorrenza a fare da regolatore naturale, non un’ordinanza calata dall’alto.
La magistratura milanese ha invece imboccato la via opposta, sostituendosi alla libera contrattazione. Il risultato è un irrigidimento che riduce la flessibilità, con costi inevitabili: meno consegne disponibili, più spese operative, tariffe più alte per i consumatori e, paradossalmente, meno opportunità di guadagno per gli stessi rider. L’illusione di “protezione” si è tradotta e si traduce in nuove barriere, che colpiscono proprio chi si vorrebbe difendere. Non è un evento isolato.
La storia economica è costellata di tentativi di imbrigliare i rapporti di lavoro con regole uniformi: dal salario minimo imposto per legge ai tetti agli affitti, fino alle rigidità dei contratti collettivi obbligatori. Ogni volta, il risultato è stato e rimane sempre lo stesso: soffocare la negoziazione individuale, ridurre gli spazi di libertà, scoraggiare l’innovazione. Si tratta di un modello paternalista che considera i cittadini incapaci di decidere da sé e li affida alla “protezione” di giudici e legislatori.
La sinistra ha salutato la decisione come una vittoria storica. Ma è davvero progresso imporre per via giudiziaria che un lavoratore riceva 30 centesimi in più a consegna o che indossi un cappellino distribuito dall’azienda? O non sarebbe più dignitoso riconoscere che un adulto è in grado di valutare da sé i rischi e i benefici della propria attività? La dignità non nasce dall’essere trattati come minori sotto tutela, bensì dalla possibilità di dire sì o no a un contratto, di cambiare fornitore o datore di lavoro, di essere liberi di scegliere.
L’alternativa è chiara. O una società in cui lo Stato e i tribunali dettano le condizioni di ogni scambio, riducendo le persone a ingranaggi passivi, o una società in cui gli individui decidono autonomamente, assumendosi responsabilità e benefici delle proprie scelte. Nel primo caso, si ha immobilismo, costi crescenti e progressiva disaffezione verso il lavoro. Nel secondo, si ha dinamismo, concorrenza e opportunità.
Il caso dei rider insegna una verità semplice: non servono giudici che fissino il prezzo del caldo, della pioggia o del traffico. Ciò che davvero tutela è lo spazio lasciato alla libertà, il più solido alleato della sicurezza e del benessere. Senza libertà, ogni protezione diventa illusoria. Ed è qui che torna attuale la lezione di Julian L. Simon: la vera ricchezza sono le persone e la loro capacità di inventare nuove soluzioni.
Aggiornato il 25 agosto 2025 alle ore 11:24