
Incitando guerre commerciali e avendo una visione infantile della forza degli Stati Uniti come Paese con un surplus commerciale, Donald Trump rischia di rovinarsi la festa da solo
Le dimensioni e la ricchezza della base di consumatori americana sono ineguagliabili e i Paesi che ne rimangono esclusi non possono facilmente compensare la differenza vendendo più beni e servizi altrove. Interi settori industriali in Europa e in Asia, crollerebbero senza l’accesso al consumatore americano. Ora, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump è disposto a concedere questo accesso, ma a un prezzo. E questo prezzo per l’Europa è una tariffa del 15 per cento sulla maggior parte delle sue esportazioni verso gli Stati Uniti. La tariffa è pari alla metà del 30 per cento inizialmente minacciato, ma comunque ben al di sopra delle norme storiche. In cambio, l’Europa si impegna a importare energia per un valore di 750 miliardi di dollari nei prossimi tre anni, inclusi gas naturale liquefatto e prodotti petroliferi.
Poi c’è la componente Maga: gli investimenti da parte delle industrie europee negli Stati Uniti ovvero 600 miliardi di dollari, con una forte attenzione alla produzione di difesa obbligando a acquistare altri miliardi di equipaggiamenti militari statunitensi. Il messaggio di Trump è chiaro: se l’Europa vuole continuare a combattere la sua guerra per procura in Ucraina, ora dovrà pagare per le armi americane. Ecco, tutto questo “pacchetto” è stato di recente fissato nel nuovo accordo quadro per il commercio transatlantico stipulato a Turnberry, in Scozia. Cosa ha ottenuto in cambio l’Europa? Nulla. Una totale e umiliante capitolazione. Il declino economico dell’Europa è stato brutalmente messo a nudo da questo atto di forza trumpiano che svela anche il declino geopolitico del continente: l’Europa è ora costretta a entrare nell’orbita energetica degli Stati Uniti.
Dopo aver bruciato gli ultimi ponti diplomatici con Mosca l’Unione europea si è infilata in un altro vicolo cieco. Ora, con il 60 per cento del suo fabbisogno energetico dipendente dalle importazioni, Bruxelles non solo si ritrova legata al predominio energetico degli Stati Uniti ma alla loro capacità di dettare la linea politica attraverso la guerra economica. L’energia ha un costo ma Bruxelles sta iniziando a comprendere che il vero prezzo da pagare non sono i dazi ma il suo esperimento di trasformazione green. Infatti, nella conferenza stampa con la regina dell’Europa, Ursula von der Leyen, Donald Trump ne ha deriso i totem: energia verde e migrazione senza confini, due politiche mai votate dagli europei, ma applicate con maggiore implacabilità da Bruxelles. In effetti, il disastro commerciale dell’Ue è profondamente connesso a queste due politiche. In entrambi i casi, il problema deriva dal fatto che l’Europa è governata da una classe che non ha alcun senso di rappresentare gli interessi europei, per non parlare di quelli nazionali. Le frontiere aperte e l’ambientalismo analfabeta sono segni di un’élite ormai intronata e profondamente impreparata a trattative economiche impegnative. Finché la classe politica europea non sarà sostituita da movimenti nazionali con un forte senso dei propri interessi, la subordinazione rappresentata da questo accordo commerciale con l’America segnerà il suo destino per gli anni a venire.
Quanto a Trump, convinto erroneamente che lo status di riserva del dollaro statunitense sia legato alla riduzione del deficit commerciale, si sbaglia di grosso. Certo, gli Stati Uniti hanno l’enorme deficit commerciale con il resto del mondo di oltre 918 miliardi di dollari che rappresenta l’eccesso di consumo di beni e servizi rispetto a quanto producono. Come colmano la differenza? La colmano vendendo al resto del mondo una quantità equivalente di attività finanziarie sotto forma di titoli del Tesoro, azioni, proprietà. In altre parole, il deflusso di dollari (il disavanzo delle partite correnti,) è compensato, nella loro bilancia dei pagamenti, da un afflusso di capitali esteri negli Usa (il surplus del conto capitale). Come spiegato più volte su questo giornale, il presunto “deficit” viene quindi pagato dagli stranieri esportatori che investono l’equivalente importo di denaro in dollari. Non ci deve essere una corrispondenza esatta. Se il surplus fosse insufficiente rispetto al deficit, il valore del dollaro diminuirebbe per attirare ciò che è necessario per bilanciare i conti. Ecco perché il valore del biglietto verde scende quando il disavanzo delle partite correnti è ampio. E quando il fabbisogno finanziario è così ampio, il dollaro deve scendere abbastanza per aumentare il potere d’acquisto delle valute estere, e quindi colmare il divario finanziario. È così che funziona la bilancia dei pagamenti.
Se per assurdo, come Trump vorrebbe, gli Stati Uniti, invece di un deficit commerciale, avessero avanzo delle partite correnti, cioè producessero più di quanto consumano (il che non è mai avvenuto), la situazione si ribalterebbe e gli Usa avrebbero un deficit in conto capitale perché le valute ottenute esportando sarebbero investite nei Paesi importatori i quali, per contro, non investirebbero negli Usa, in particolare nel debito americano. E così Trump non potrebbe più espandere la spesa pubblica come sta facendo. È proprio il deficit commerciale a consentire agli Usa il privilegio della valuta di riserva: continuare a acquistare beni e servizi prendendo perennemente a prestito dall’estero senza mai doverlo rimborsare. Il che significa non pagare mai con trasferimenti di ricchezza reale ma con promesse di pagamento (titoli del Tesoro). Incitando guerre commerciali e avendo una visione infantile della forza degli Stati Uniti come paese con un surplus commerciale, Trump rischia di rovinare da solo la festa del dollaro che dura da decenni.
Aggiornato il 04 agosto 2025 alle ore 10:55